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I migliori film di 3 (o più) ore da vedere

Ostacolo per tantissime persone, la lunghezza di un film è stata un fattore di alcune pellicole che hanno fatto la storia del cinema: ma quali sono i migliori dalla durata di 3 o più ore?
I migliori film di 3 (o più) ore da vedere

Spesso rigettati per la loro lunghezza, esistono dei film che hanno fatto la storia del cinema anche – e soprattutto – in virtù di una durata eccessiva. Negli ultimi anni, con opere come Babylon, Oppenheimer o Killers of the Flower Moon l’esigenza di alcuni addetti ai lavori sembra essere tornata forte: realizzare delle vere e proprie epopee che si prendano tutto il tempo di cui hanno bisogno e che allontanino montaggi stringenti e tagli corposi del film. La storia del cinema è ricca anche di film eccessivamente lunghi, dalla durata di più di 3 ore, di cui vogliamo parlarvi: perdonando qualche piccolo caso di film che durano “leggermente” meno dei 180 minuti previsti, vogliamo raccontarvi alcuni dei migliori film di 3 (o più) ore da vedere assolutamente.

Schindler’s List (195 minuti)

Il dramma dell’Olocausto, raccontato da Steven Spielberg, inizia e finisce mettendo in primo piano un aspetto determinante: l’identità; infatti, questa è la storia di persone di cui nome e cognome è stato portato via, insieme alla dignità, dallo scellerato quanto abominevole concetto della “razza”. Dentro ciò si sviluppa l’evoluzione di un individuo che rispecchia appieno l’archetipo del protagonista spielberghiano, diventando salvatore, ma soprattutto padre, di più di duemila persone; la soluzione del cappotto rosso per rappresentarne la redenzione è alquanto efficace. Ancora oggi la migliore pellicola della sua filmografia, giustamente premiata agli Oscar, così come lo è per l’interpretazione di Liam Neeson.

Apocalypse Now (203 minuti)

Quando si parla di lunghi lungometraggi, non si può non citare uno fra i maestri del cinema dalle pellicole record come Francis Ford Coppola. Oltre agli esemplari casi della trilogia de Il Padrino, spicca tra tutti quello di Apocalypse Now, uno fra i capolavori del regista che nella versione destinata al grande schermo, la cosiddetta final cut, dura “solo” 160 minuti mentre nella director’s cut ben 203 minuti, ossia poco meno di 3 ore e mezzo. Si tratta di 49 minuti di materiale aggiuntivo alla pellicola voluto dal regista e dal curatore del montaggio Walter Murch. Tuttavia, l’impresa epica di Francis Ford Coppola non è stata solo quella di aver dovuto lavorare con una mole così impegnativa di pellicola, ma anche quella di aver dipinto una suggestiva riscrittura in chiave cinematografica del romanzo Cuore di tenebra di Edward Morgan Forster, trasponendo il colonialismo all’epoca della guerra nel Vietnam.

Fanny e Alexander (312 minuti per la TV, 188 minuti per il cinema)

Ingmar Bergman è uno dei registi per i quali si può affermare che l’infanzia sia una porta mai chiusa sul passato, un tempo che genera un dialogo inestinguibile con il presente. Arrivato nell’ultima parte della sua carriera il regista svedese affronta in modo esplicito, come mai prima di allora, questa cruciale fase della sua vita e lo fa con un film che è anche una serie tv, Fanny e Alexander. Ben prima delle discussioni circa la natura di opere come Esterno Notte, Ingmar Bergman si era cimentato nell’ibridazione di queste due forme espressive, con risultati peraltro eccezionali.

Fanny e Alexander è un racconto di crescita, in cui una numerosa e all’apparenza affiatata famiglia svedese si trova a dover affrontare lutti, tragedie e incomprensioni. Il punto di vista è quello dell’infanzia, l’unico momento della crescita in cui si è in grado di cogliere la magia del mondo, di abbracciarne la bellezza e di esserne profondamente turbati dall’orrore. In modo prodigioso dunque un regista che nemmeno quarantenne girò il più grande film sull’invecchiare di tutti i tempi, si trova quasi settantenne a farne uno egualmente meraviglioso su quanto sia complesso crescere.

Magnolia (189 minuti)

Un titolo che ronzava in testa da anni, la piena libertà creativa ottenuta grazie al successo del precedente Boogie Nights, l’insieme di attori particolarmente noti in un super cast che annovera – tra le sue presenze – quelle di Tom Cruise, Philip Baker Hall, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman e tanti altri. Sono questi gli ingredienti di quel grandissimo capolavoro che è Magnolia, un film in cui Paul Thomas Anderson svela se stesso e tutta l’ispirazione a Robert Altman, in un lavoro estremamente sublime nella sua struttura e nella sua capacità di raccontare la fatalità, il caso e il senso di colpa, in 9 storie intrecciate dai labili fili dell’esistenza, dal senso della predestinazione e dall’inferenza biblica di alcuni avvenimenti, tra rane e messaggi che vengono lasciati qui e là all’interno del film. A partire dallo straordinario prologo che ha già fatto la storia del cinema, fino alla colonna sonora perfetta che definisce le diverse scene del film, Magnolia è una pellicola che esprime con forza tutto lo stile, l’estetica e la capacità tematica che alimenta la carriera di PTA. 189 minuti che potranno essere vissuti abbandonandosi totalmente al racconto di un solo giorno, che si conclude con quel finale di cui ancora oggi si dibatte.

Drive My Car (179 minuti)

Drive My Car è senz’altro uno dei migliori film dalla durata di circa 3 ore, poiché Hamaguchi riesce ad esaminare temi universali attraverso una messa in scena simmetrica, intensa e simbolica. L’incomunicabilità, tanto cara a Michelangelo Antonioni, diventa il fulcro di questa storia che è riuscita ad aggiudicarsi l’Oscar al Miglior Film Internazionale nel 2022, mostrando l’emotività dei personaggi – soprattutto di Yusuke e Misaki – e le difficoltà che ne seguono da un punto di vista relazionale. A proposito di simboli, la letteratura e il teatro rappresentano due forme d’arte fondamentali in Drive My Car poiché consentono al cineasta giapponese di mescolare finzione e realtà, sottolineando la labilità del confine che li separa. 

La Saab 900 rossa di Yusuke è invece un intimo luogo che ha lo scopo di manifestare l’attaccamento del protagonista alla sua vita passata e all’amore provato per la defunta moglie. Il linguaggio dei segni diventa un’ulteriore fonte di comunicazione che serve a risollevare l’animo di chi riempie le inquadrature, le quali veicolano la distanza o la vicinanza sentimentale tra i personaggi. Hamaguchi, infatti, si pone l’obiettivo di autenticare la realtà servendosi delle immagini e di ciò che scaturiscono le prove della pièce Zio Vanja, esteriorizzando quello che è inespresso, recondito. Il finale, dove sono i gesti ad essere al centro di tutto, suggerisce un profondo messaggio di speranza e di rinascita

Beau Ha Paura (179 minuti)

Basato sull’omonimo cortometraggio dello stesso regista, Beau ha paura è il terzo lungometraggio scritto e diretto da Ari Aster, che fa suo il progetto anche in veste di produttore dopo aver lasciato il segno con i suoi formidabili esordi di Hereditary e Midsommar. Sebbene già quest’ultimo tenderebbe ad allontanarsi dai canoni classici e standardizzati del genere horror, il film del 2023 prende proprio delle strade al limite della decifrabilità, se non per la sua natura squisitamente surreale. Con assoluto protagonista un Joaquin Phoenix tanto granitico quanto estremamente fragile, Beau ha paura narra dell’epopea del suo instabile protagonista che, deciso a fare visita a sua madre, inizia un’improbabile avventura nel folle e variegato universo del suo subconscio.

Un titolo che si è rivelato estremamente divisivo, non solo per la sua durata, non solo per la profondità delle tematiche che tratta ma, soprattutto, per il modo in cui queste vengono portate su schermo, combinando in un folle calderone la commedia grottesca, l’avventura, il thriller, il drammatico e l’horror psicologico. Beau ha paura è infatti un vero e proprio viaggio in un denso e sorprendente simbolismo, che prende vitalità dalla personalità dell’autore per espandersi a tematiche esistenziali universali. Un film che non può dunque passare in osservato, che restituisce allo spettatore qualcosa di unico nel suo genere e che colpisce specialmente per l’altissima perizia tecnica della sua realizzazione, confermando l’estremo talento di un regista ormai non più emergente come Ari Aster.

C’era una volta in America (251 minuti)

Arriva un treno, la modernità caccia dalla frontiera i pistoleri delle narrazioni mitiche americane. Non contento di aver decostruito la mitologia cinematografica americana, Leone scava ancora più a fondo. Questa volta la favola inizia in un appartamento, dove dopo pochi minuti si manifesta lo spettacolo della morte. I nuovi pistoleri a cavallo sono i gangster con le loro automobili. Non troviamo più la frontiera, ma strade desolate con veicoli in fiamme. C’era una volta in America racconta l’ipocrisia della più grande delle menzogne politiche. Gli Stati Uniti nati dal sangue, vivono nel sangue. Nei 30 anni che il film esplora, Leone inquadra cambiamenti sociali e drammi umani con un occhio penetrante. Uno sguardo cinico forse, ma che destabilizza lo spettatore. Il film fluisce come una fiaba: si prende i suoi tempi, alterna azione ad intimità e si chiude con delicatezza.

The Batman (176 minuti)

L’ambizioso reboot di Reeves è il film più lungo mai realizzato sull’Uomo Pipistrello. Il regista ha infatti realizzato una dettagliata costruzione della sua Gotham, unendo le paure di una città corrotta dal male con le atmosfere di opere come Seven di David Fincher. Al di là delle perfette sequenze d’azione, The Batman è uno splendido noir che riflette sui significati delle azioni di giustizia e degli atti reazionari, le cui differenze sembrano sempre più pericolosamente sottili nei tempi in cui viviamo ora. Da segnalare la performance di Robert Pattinson, seguita da un eccellente cast, nei panni di Bruce Wayne, che si piazza in modo prepotente tra le migliori interpretazioni di sempre in un cinecomic.

Sátántangó (435 minuti)

Si è ritirato dalle scene da più di un decennio da quando, nel 2011, diresse Il Cavallo di Torino, il suo ultimo lungometraggio, ma l’influenza di Béla Tarr nel mondo del cinema è ancora oggi fortissima, nonostante il suo nome sia sconosciuto ai più. Tra le sue opere più celebri spicca indubbiamente Sátántangó e lo fa per un motivo molto semplice: la sua durata si attesta sui 435 minuti, ovvero 7 ore.

Nonostante buona parte sia frutto di improvvisazione, esso si basa sull’omonimo romanzo di László Krasznahorkai, l’opera segue la struttura di un vero e proprio tango, in quanto diviso in 12 parti di cui 6 parti che vanno cronologicamente in avanti e 6 che vanno indietro. Ci vollero 120 giorni ed un budget di circa 1,5 milioni di dollari per realizzare questa opera mastodontica dove lo spazio gioca un ruolo fondamentale, lo spazio in quanto luogo della mente ma anche, più concretamente, come il luogo in cui avviene l’azione, con la sensazione – una volta arrivati alla fine di questo viaggio – che esso sia compresso e non eccedente, che meritasse più tempo e non dei tagli al montaggio. Un’esperienza più vicina a quella del teatro che a quella cinematografica per uno dei capolavori più significanti di Tarr. Da (ri)scoprire.

Il Cacciatore (183 minuti)

Considerato uno dei migliori titoli della storia del cinema, “Il Cacciatore” diretto da Michael Cimino, al suo secondo lungometraggio dopo “Una Calibro 20 per lo Specialista” (1974), è un film drammatico che racconta di un gruppo di amici intenti a festeggiare il matrimonio di uno di loro prima di partire per la guerra in Vietnam. Il grande conflitto li sconvolge profondamente, anche se ognuno affronta il proprio percorso in maniera differente. Un viaggio attraverso le vite di alcuni operai siderurgici che condividono la passione per la caccia, all’interno di un film che alterna sequenze più crude a momenti di semplice quotidianità. Il cast è composto da grandi nomi del panorama hollywoodiano: da Robert De Niro a Meryl Streep, ma anche Christopher Walken e John Cazale, senza dimenticare John Savage.

“Il Cacciatore”, nonostante qualche iniziale critica negativa, ha riscosso un enorme successo e, alla 51° edizione degli Academy Awards, ha ricevuto 5 statuette su 9 nomination, mentre nel 1996 è stato selezionato per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Un capolavoro figlio di un cinema di un tempo che, per via degli argomenti trattati, resta ancora tremendamente attuale per situazioni e tematiche. Una profonda critica al Paese ed alla brutalità della guerra, ma che ragione anche sulla solitudine e l’elaborazione del dolore, per poi concludersi con un finale ricco di ambiguità.