“La vita davanti a sé”: una Sophia Loren intensa per un film che riesce a trasmettere poco

Articolo pubblicato il 6 Gennaio 2022 da wp_13928789

“La vita davanti a sé” innanzitutto è un romanzo del 1975 di Romain Gary di cui esiste già una trasposizione cinematografica uscita nel 1977 (“La vie devant soi” di Moshé Mizrahi) vincitrice, tra l’altro, del premio Oscar per il miglior film straniero. All’ambientazione francese fa fronte quella tutta italiana dell’opera (Bari, nello specifico) firmata da Edoardo Ponti, figlio della Loren, alla regia del suo primo lungometraggio. 

Nel film targato Netflix vediamo la protagonista Madame Rosa, una donna anziana e sopravvissuta all’olocausto ed oramai ex prostituta, che fa da madre acquisita ai figli delle giovani mamme che per necessità (anche loro prostitute senza un marito) non possono badare a loro. 

Proprio su uno di questi bambini verte la trama: un ladruncolo chiamato Momo (Ibrahima Gueye) è in palese difficoltà sociale, ed il dottor Cohen, suo affidatario, insiste affinchè Madame Rosa accetti di prenderlo con sé per qualche mese; Momo, bambino di origini senegalesi, non riesce a staccarsi dal ricordo della madre, dell’affetto che ora non ha più (immagina una leonessa che ogni tanto va a trovarlo leccandogli la faccia, simboleggiando proprio la carenza di affetto) e fa di tutto per apparire un giovane dalla faccia tosta e indipendente, ricorrendo anche a lavoretti poco nobili come lo spaccio. Sarà proprio Madame Rosa a fornirgli buoni esempi ed un’umanità che servirà al piccolo Momo per crescere e trovare la retta via. Quel ladruncolo che all’inizio del film la deruba, piano piano riuscirà ad occupare un importante posto nel cuore dell’anziana protagonista. 

Una Sophia Loren che dimostra di essere in super forma nonostante l’età, nonostante un personaggio scritto in maniera non troppo approfondita; ma questo non basta. Il film avrebbe tanto dire ma forse proprio per questo non riesce mai ad essere incisivo, non riesce a raggiungere il pathos sperato e risulta, alla fine, abbastanza anonimo e superficiale. Madame Rosa è perfetta per la Loren poiché è un conglomerato di varie figure già interpretate magistralmente nel corso della sua carriera (la prostituta, la madre, una donna devastata da traumi e violenze), ma è un personaggio che non osa mai, non viene mai scavato nel profondo e vive di continue allusioni che ci danno un’idea su come dovrebbe essere il suo carattere. Cita i traumi vissuti durante l’olocausto, ci viene detto che ha cresciuto tantissimi bambini ed aiutato altrettante persone, eppure non ci lascia nulla addosso. Non c’è mai quel momento clou in cui Madame Rose fornisce allo spettatore un aneddoto, un racconto incisivo, che rimanga nella testa di chi sta guardando il film. Troppe allusioni, poco spessore, ed il risultato è un personaggio lineare che sa di già visto ma che viene insaporito da un’intensa recitazione (si vocifera che la Loren possa essere presa in considerazione per i prossimi Oscar, nonostante la mancata nomination ai Golden Globe). Momo invece ha un background leggermente più sviscerato: abbiamo già citato la leonessa che vive nella sua immaginazione, ottimo simbolo per suggerire allo spettatore che il bambino ha una carenza d’affetto non indifferente; usa lo spaccio per sentirsi vivo e indipendente con dei soldi guadagnati e che può spendere come vuole, perché no, anche per divertirsi. Sembra non andare d’accordo con l’altro bambino affidato a Madame Rosa, Joseph, ma in realtà è tutta apparenza perché legano tra loro e finiscono con il volersi bene. Momo ama la musica, ama ballare, sotto il suo finto cinismo ama la vita (“Le cose che mi fanno schifo mi vengono sempre bene”, dice ad Hamil mentre lavora un tappeto), e tutto questo ci viene trasmesso da dettagli nemmeno troppo velati. Il suo percorso di formazione ha un inizio, uno sviluppo e una fine: viene avvolto da tanta umanità e dal calore offertogli dalle persone che sono entrate nella sua vita, come Hamil (Babak Karimi), suo datore di lavoro che cerca di fargli da guida spirituale; il piccolo Joseph, che diventa un amico per lui; Lola, un transessuale che si occupa di suo figlio quando può (mentre quando non può lo lascia a Madame Rosa); ed ovviamente, ultima ma non per importanza, proprio Madame Rose. 

Per quanto riguarda Ponti, non gratta nemmeno in superficie, cerca di fornire un pigro assist agli spettatori per attivare in loro un processo di deduzioni (perché mostrare solo una breve scena in cui Momo guarda a distanza degli immigrati portati via dalla polizia, invece di approfondire con degli sviluppi narrativi la problematica dell’immigrazione nel nostro paese?). La regia invece (ricordiamo che si tratta di un sordio) vive di qualche guizzo con inquadrature esteticamente interessanti, tra piani umani e paesaggistici. 

In conclusione, la parabola del film si chiude teneramente ma non basta poichè lo spettatore potrebbe finire per esserne annoiato piuttosto che toccato, nonostante la durata sia di soli 94 minuti. Una gloriosa performance attoriale non basta a salvare una scrittura pigra. 

Nonostante questo, ci fa piacere per il ritorno dell’Italia ai prossimi Golden Globe dopo tanti anni di assenza (l’ultima volta fu con il trionfo de “La Grande Bellezza” nel 2014). La Loren è sempre la Loren.

SPOILER:

La trama è superficiale, pochi gli elementi e i simboli come la leonessa che provano a dare al film più profondità, e tanti invece sono gli elementi presentati in modo eccessivamente scolastico.

Non viene nemmeno mai approfondita la relazione tra i personaggi: ad esempio non inquadriamo il rapporto che c’è tra Momo ed il suo affidatario, il dottor Cohen; perché alla prima bravata vuole affidare Momo a qualcun altro? Possiamo solo dedurre che non è la prima. 

Il film si chiude teneramente con la morte di Madame Rosa, dopo una sequenza finale in cui la protagonista ammalata gravemente, viene fatta evadere da Momo ed è stesso il bambino a prendersi cura di lei fino all’ultimo respiro. Tra l’altro le farà il regalo che, a detta della stessa Madame Rosa, è il più bello che abbia mai ricevuto in vita sua per l’alto carico di significato che porta con sé, ossia una mimosa finta che però le ricorda la giovinezza, la tranquillità di una casa circondata da mimose ed affittata in Toscana dai suoi genitori, totalmente opposto al ricordo tenebroso di Auschwitz.

Infine c’è la scena del funerale con le lacrime del piccolo Momo che vede reincarnarsi la stessa protagonista nella sua leonessa. Purtroppo è non è abbastanza per alzare il livello di un film fin troppo lineare. 

– Christian D’Avanzo