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Nomadland: il racconto reale di uno smarrimento

Nell’ultima stagione dei premi, “Nomadland” ha dominato tutto: stiamo parlando di un’opera che ha portato a casa tre Oscar (tra cui miglior film), due golden globe (tra cui miglior film), quattro Bafta (tra cui miglior film), il Leone D’Oro (sempre al miglior film) due Gotham Indipendent Awards (tra cui miglior film) e chi più ne ha più ne metta, senza contare ovviamente l’eccezionale accoglienza critica.

Il film è approdato da un po’ di giorni nelle sale cinematografiche al momento aperte (le quali ricordiamo, stanno aumentando) ed oggi è uscito anche su Disney Plus attraverso la piattaforma Star. Che impressioni ci avrà fatto il film che ha consacrato definitivamente la regista Chloé Zhao?

L’opera parla di una donna di nome Fern che perde il marito a causa di una malattia e perde il lavoro a causa della grande Recessione. Sentendosi persa, Fern decide di intraprendere la vita da nomade allontanandosi dai canoni sociali, conoscendo nuove persone ed intraprendendo un nuovo percorso che potrebbe essere determinante per il suo futuro.

Dal punto di vista registico, il film è mostruoso: la macchina da presa segue spesso la protagonista come se ci stesse indicando la via per accompagnarla nel viaggio, ma spesso le inquadrature create dalla camera in movimento si estendono in panoramiche accompagnati anche a campi lunghi che catturano l’immensità dei paesaggi. Questi ultimi sono spesso evidenziati allo spettatore, per dare quel senso di bellezza infinita della natura che continua a chiamare la gioia della vita, ma allo stesso tempo da un senso di spaesamento, di una piccolezza in confronto a tutto il resto che ci circonda.

Con una potenza come questa, l’Oscar dato alla regista lo trovo assolutamente meritato, senza parlare poi della splendida fotografia di Joshua James Richards che richiama ad un calore molto forte attraverso cui i personaggi sono continuamente avvolti. Per quanto riguarda gli attori, Chloe Zhao si è rifatta direttamente alla tecnica inaugurata da Vittorio De Sica con il neorealismo, prendendo per lo più attori non professionisti che interpretano loro stessi. Le uniche eccezioni sono date dalla protagonista Frances McDormand e da David Strathairn.

Frances McDormand mostra sguardi che evidenziano una stanchezza molto forte accompagnati da una voce spesso strozzata che chiede solamente un po’ di riposo, riposo che la protagonista non riesce a trovare a causa del suo smarrimento. Ma quello smarrimento richiama anche ad una dolcezza che fa breccia nel cuore dello spettatore, una dolcezza che con i suoi occhi ricerca il suono del silenzio contro ogni difficoltà. La McDormand riesce ad esprimere perfettamente tutte queste emozioni, arrivando ad una grande intensità che però si fonde con tutti gli altri attori, tanto che persino lei da l’idea di essere qualcuno presa dalla strada come gli altri (che sono incredibili) e di non essere un’attrice nel senso buono della frase.

L’atmosfera di “Nomadland” infatti è fortemente documentaristica… senza essere un documentario: non ci sono interviste e non c’è un narratore fuori campo, eppure ogni singolo frame sembra essere preso da qualcuno che si è nascosto da qualche parte per riprendere scene di vita vissuta. Le scene di “Nomadland” infatti sono molto semplici nella loro concezione scritta e non succede nulla di veramente eclatante, perché vediamo semplicemente individui che vanno avanti e basta, anche semplicemente lavando i piatti.

Ma è questa la forza dell’opera, ovvero il rendere reale il tutto, attraverso silenzi e volti che soffrono ma vivono, attraverso volti tristi ma che puntano alla semplicità della felicità dopo la distruzione giunta a causa di una società che li ha rinnegati. Il sistema capitalistico, dopo essere crollato, vede gli individui solamente come dei numeri che si aggiungono o si sottraggono al loro schema matematico, senza fare il vero calcolo umano, ovvero che dietro questi numeri ci sono persone, persone che non vengono tutelate dal governo e dal sistema, perché una volta che queste sono in difficoltà non sono più utili ad esso, dato che possono essere rimpiazzati con qualcun altro che non necessita di un aiuto e quindi di più risorse… ed ecco che quindi tanta gente viene strappata dalle loro case.

Ma una volta che ci si ritrova senza meta che cosa si può fare? Il film di Chloè Zhao evidenzia una lunga ricerca e quel senso di smarrimento dipinto sulle inquadrature chiede allo spettatore immedesimazione. Tutti questi ritratti di vita quotidiana fanno immaginare che cosa si proverebbe a stare al posto dei personaggi. Il realismo infatti è ripreso benissimo e sta a noi decidere se è sufficiente per connettersi ad esso. È una ricerca emotiva che dobbiamo accettare e che non è adatta a tutti, perché se questa connessione non avviene perché lo spettatore non si sente appagato dal ritmo molto lento e dai semplici gesti, allora il film potrebbe risultare molto noioso. Ma se lo spettatore si immedesima, allo stesso tempo, oltre al forte colpo sociale, il senso di smarrimento richiama alla perdita della nostra anima che ad un certo punto si sente “scazzottata” e sente il bisogno di prendere una boccata d’aria, una boccata d’aria che non potrebbe mai più riportarti a terra perché ti ha reso tutto troppo leggero per non atterrare sul fuoco ardente della vita… ma forse la strada da percorrere può anche portare ad un campo più bello da vedere, un campo che non segna l’agevolazione perché quella difficilmente si ottiene… ma sicuramente segna la rinascita.

Per questi elementi appena descritti, “Nomadland” si può definire uno dei drammi più interessanti degli ultimi anni, con un grande richiamo al neorealismo attraverso però una forte identità che chiede giustizia per le minoranze e riscatto contro tutte le difficoltà della vita che però è sempre carica di una bellezza immensa.

  • Andrea Barone