“The Father”: una struggente e frammentaria visione della vecchiaia

Articolo pubblicato il 6 Gennaio 2022 da wp_13928789

Dopo una prima settimana proiettato in lingua originale, la programmazione di “The Father: Nulla è come sembra”, vincitore del premio oscar per il miglior attore e per la miglior sceneggiatura non originale, è stata estesa in tutti i cinema e stavolta con il doppiaggio italiano. L’opera è valida? E merita i premi ricevuti? Scopriamolo insieme.

La trama vede un uomo anziano di nome Anthony che discute con la figlia che vuole andare a Parigi e per questo lei insiste affinché trovino qualcuno che gli dia la mano durante la sua assenza. Tuttavia il vecchio, malato di Alzheimer, comincia a non avere più la giusta percezione della realtà e vede nuove cose e nuovi volti che lo disorientano di continuo.

Dal punto di vista registico, l’esordiente Florian Zeller arrivato al cinema dopo numerose regie teatrali (e di cui è anche autore della sceneggiatura di quest’opera) realizza delle riprese ben impostate senza particolari guizzi di cui si ha memoria, per questo punta tutto sulla forza dei volti degli attori che sono veramente intensi. Se abbiamo un’Olivia Colman che esprime bene il dolore della sua condizione, a rubare costantemente la scena è Anthony Hopkins, il quale ha creato una delle interpretazioni più straordinarie della sua carriera, tranquillamente paragonabile a quella di “Il Silenzio Degli Innocenti” considerata ancora da molti l’apice della sua qualità. Hopkins infatti riesce in maniera del tutto naturale a tirare fuori la costante fragilità della vecchiaia, diffondendo però allo stesso tempo alcune macchie di energia che evidenziano la giovinezza passata del personaggio, ricco di carisma.

La caratteristica principale del film tuttavia è l’aver voluto dare un’immagine estremamente empatica ed immedesimante della demenza senile: più volte, durante il film, vediamo diversi personaggi che, agli occhi del protagonista, cambiano la faccia, con eventi che appaiono completamente sconnessi tra di loro, con dialoghi che dicono una cosa e poi ne dicono un’altra, disorientando non solo il protagonista, ma anche lo stesso spettatore. In questo modo il film vuole in tutti i modi farci provare, anche solo un minimo, che cosa potrebbe provare un uomo malato di Alzheimer. Questo tipo di approccio potrebbe essere ritenuto fastidioso, ma è proprio questo ciò a cui l’opera vuole puntare, dando un costante senso di disorientamento che però, in determinati frangenti, riesce anche ad arrivare ad un momento in cui i punti si uniscono e fanno percepire le sensazioni del protagonista ed i rapporti con i suoi cari secondo diversi dialoghi frammentati che, una volta messi insieme, hanno perfettamente un loro senso.

A volte non tutto viene messo a fuoco (come il volto del fidanzato della figlia di Anthony che non viene ben definito), ma forse perché anche la stessa opera ad un certo punto vuole mettere alla prova lo spettatore cercando anche di fargli interpretare con la sua testa ciò che potrebbe essere reale o meno, in modo da farlo applicare ancora di più sull’opera senza spiegare tutto per filo e per segno (e quando lo fa non è nemmeno troppo esplicito). Ma se lo spettatore può giocare con la mente, il lungometraggio diventa sempre più duro, ricordando la condizione di chi invece non riesce più a controllare nulla di sé stesso e che viene paragonato sempre di più con l’indebolimento che il tempo fa all’essere umano, tanto che quest’ultimo non riesce più neanche a rendersi conto di quanto tempo effettivamente stia passando… e ciò mette comincia a fare paura. Quella paura di invecchiare, quella paura di arrivare alla fine senza alcuna certezza (e questa incertezza è dieci volte più cattiva con la malattia) potrebbe trascinarvi in un dolore emotivo molto forte se vorrete confrontarvi con la vostra paura per il futuro… e se avete avuto a che fare con qualcuno che vi è vicino o che è stato vicino nelle condizioni del protagonista Anthony allora c’è il rischio che l’emotività vi prenda in modo estremamente forte.

“The Father” è un’opera triste ma davvero molto potente che riesce a far immedesimare le persone nei lati più terribili della vecchiaia, trascinando in una profonda compassione generata da una continua analisi del dolore di chi sta andando sempre più avanti quando ormai il suo percorso si è quasi concluso dopo tanti anni. Con delle interpretazioni mostruose ed una sceneggiatura davvero originale nella propria impostazione complicata ma senza che sia eccessiva, l’opera da esordiente di Florian Zeller raggiunge il suo centro ed è probabilmente uno dei film più interessanti dell’anno che vi consigliamo di recuperare immediatamente se avete un grande schermo nelle vicinanze che lo proietta.

Andrea Barone