Articolo pubblicato il 5 Agosto 2023 da Giovanni Urgnani
Lungometraggio che completa la trilogia dei cavalieri diretta dal maestro John Ford, uscito nelle sale americane nel 1950, Rio Bravo (Rio Grande) è liberamente ispirato al racconto di James Warner Bellah: Mission with no records del 1947.
Se nelle due pellicole precedenti nel forte gli individui si uniscono per formare una nuova famiglia, in questo caso nel forte una famiglia divisa per molti anni riesce a ritrovarsi ed a recuperare un rapporto ormai perduto. Il colonnello Kirby Yorke, interpretato magistralmente da John Wayne, è costretto a fare i conti con il suo vissuto, tirando le somme di una vita votata all’obbedienza e al “senso del dovere”. Sicuramente la sua devozione alla divisa gli ha garantito una brillante carriera militare, ma quanto è costato? La vita del soldato non è uguale alle altre, l’esercito chiede in cambio la tua vita sempre senza chiedere la tua opinione o domandarsi se difronte ti trovi la persona amata, gli ordini vanno eseguiti e la sofferenza deve essere soffocata dalla ceca obbedienza. Il peso cresce sempre più, con grande malinconia ci si guarda indietro ricordando l’entusiasmo di gioventù, ma oggi c’è spazio solo per il rimpianto di un tempo impossibile da riavvolgere. Stupenda la metafora del caffè bevuto nella tenda in compagnia del generale, attraverso questa immagine percepiamo la disillusione di uomini vissuti tra le guerre e le sofferenze, il caffè di oggi è meno forte e meno saporito rispetto a prima.
Qualcosa però sta per cambiare, Jefferson Yorke (figlio del colonnello) si è arruolato spinto dal suo desiderio di rivincita personale dopo la bocciatura all’accademia del West Point verrà trasferito al forte di cui il padre è al comando. Un rapporto padre-figlio che nasce direttamente in quel momento dopo quindici anni di distanza, inizialmente freddo e distaccato ma che nasconde in entrambi una forte emozione. Emozione repressa dalla gerarchia militare e da un concetto di mascolinità legata all’uomo rigido e intransigente in cui la manifestazione d’affetto è sinonimo di debolezza, la scena finale dell’estrazione della freccia servirà a completare un ciclo evolutivo di questa relazione. Chi è sicuramente contraria alla potenziale carriera militare di Jeff, è sua madre Kathleen (Maureen O’Hara), una donna coinvolta in prima persona dagli orrori della guerra civile. A causa delle ostilità ha perso tutto quello che aveva, a cominciare dalla fattoria data alle fiamme dall’esercito nordista, ma non finisce qui; infatti, chi obbedì a quell’ordine fu proprio l’attuale colonnello del forte Kirby Yorke, suo marito. Kathleen è determinata a riportare il figlio a casa, raggiunto il forte intende a tutti i costi risparmiare a Jeff lo stesso destino vissuto da suo padre. Allo stesso tempo però vive un combattimento interiore molto forte, il suo cuore è diviso dall’amore che prova per Kirby ma anche dal risentimento rivolto sia a Kirby stesso sia a ciò di cui rappresenta. Con grande eleganza e sensibilità la pellicola mette in primo piano la caratterizzazione dei personaggi e le loro relazioni, approfondite partendo dal loro stato d’animo presente, offrendoci introspettiva e sentimento.
Non significa però che manchino i momenti epici, come sempre accade in questi casi, assistiamo a delle sequenze dinamiche totalmente mozzafiato, bilanciando il ritmo generale del film per garantire un perfetto equilibrio tra azione e narrazione. Va sottolineato un aspetto non di poco conto, la guerra contro i nativi è funzionale come contesto per le storie raccontateci, fungendo da cornice storica. I nativi infatti sono messi in scena da avversari bellici, né più né meno, percepiamo il dramma dei massacri compiuti nel corso di quel conflitto a prescindere da quale casacca i personaggi indossino in quel preciso istante. In conclusione, mi auguro di aver anche solo incuriosito al recupero di questi tre capolavori facenti parte di un genere e di una filmografia diventati storia del cinema.