Flee: L’esule perenne

Articolo pubblicato il 13 Aprile 2022 da wp_13928789

“Flee” è senza ombra di dubbio un film peculiare, difficilmente incasellabile all’interno di un solo genere narrativo o ascrivibile ad una precisa corrente stilistica. Questa fluida ibridazione di tecniche audiovisive ha portato l’Academy a candidare il film in tre categorie che solitamente risultano antitetiche tra di loro ovvero: Miglior Film Internazionale (Danimarca), Miglior Documentario e Miglior film di Animazione. Vale la pena soffermarsi su questi dati per sottolineare un fatto che nella cultura cinematografica italiana si fa ancora troppa fatica a digerire, cioè che l’animazione è un metodo e non un genere. Questa constatazione sarebbe superflua da effettuare se ci trovassimo per esempio in estremo oriente dove da decenni queste pellicole intrattengono, stimolano e commuovono indistintamente giovani e anziani, ma purtroppo nel nostro Paese, data anche la scarsa tradizione in tal senso, questo tipo di cinema è ancora da troppi considerato qualcosa da cui affrancarsi superata l’infanzia. Queste candidature invece dimostrano come un film di animazione possa arrivare ad avere valore documentaristico, cioè ad avvicinarsi, più di tutti gli altri generi cinematografici, ad un resoconto aderente il più possibile alla realtà.

Fatta questa doverosa premessa bisogna ammettere fin da subito che “Flee” non è un film esente da difetti e che sicuramente risente delle usuali storture e imperfezioni che si riscontrano quando la narrazione di un evento realmente accaduto è affidata unicamente alla voce del protagonista coinvolto. Questo non vuol significare che il racconto di Amin (il protagonista del film) sia insincero o parzialmente modificato per accaparrarsi la nostra benevolenza quanto piuttosto che l’intreccio procede talvolta in modo incerto e che, come in una vera seduta psichiatrica che il film sembra voler riprodurre, alcuni eventi vengono tralasciati e altri eccessivamente approfonditi laddove invece sarebbe necessario il labor limae del regista dietro all’opera artistica. Se dunque una critica può essere rivolta al film è senza dubbio quella che, in alcuni tratti, pare fin troppo adagiarsi sulla storia che sta raccontando senza mettere in campo tutti gli strumenti narrativi atti a renderla il più interessante e stimolante possibile ai nostri occhi di spettatori estranei alla vicenda. Stilisticamente infatti il film sembra sovente essere in bilico tra un racconto scarno e crudo di ciò che è avvenuto ad Amin e una poeticizzazione della materia trattata, generando un’opera sicuramente interessante (e in alcuni punti addirittura molto toccante) che però da la sensazione di non aver espresso una buona parte del suo potenziale.

Sarebbe d’altro canto ingiusto limitarsi a rilevare tali difetti senza considerare tutti i pregi di un film che alla fine dei conti si può dire abbia meritato i riconoscimenti che sta ottenendo. Il merito più grande di “Flee” è senza dubbio il suo valore storico-documentaristico e il modo in cui riesce a inserire la narrazione di una tragedia familiare all’interno dei grandi sconvolgimenti che hanno segnato l’Europa e il Medio Oriente. Questo elemento non può essere tralasciato, ma anzi se si vogliono affrontare questi tipi di racconti bisogna sempre percepire i protagonisti come pedine inermi travolte inesorabilmente dal flusso implacabile dei grandi processi storici e questo ovviamente esula dal genere documentaristico, che risulta soltanto quello in cui questa caratteristica deve essere più accentuata (basti pensare a come “La grande guerra” metteva meravigliosamente in atto tale procedimento, imperdonabilmente tralasciato invece ad esempio da “Tolo Tolo”). Il film riflette, fin dalle sue battute iniziali, sul concetto di casa e su cosa voglia dire migrare incessantemente, provando sempre il terrore di essere allontanati, nascondendo la propria identità e non potendo fidarsi fino in fondo di nessuno. In un periodo come questo “Flee” verrà sicuramente definito a più riprese un film “attuale”, tuttavia nessuno parola sarebbe meno adatta a descrivere ciò che realmente il film vuole comunicare ovvero la ciclicità dei cambiamenti sociali che, sempre nelle stesse zone del Mondo, generano un perenne processo di nascita e morte di nuovi regimi che di volta in volta finiscono per perseguitare o sopprimere una diversa minoranza in base al loro orientamento politico. Il triste monito lanciato da questo film riguarda proprio questa coazione a ripetere della natura umana che ingenera soltanto dolore, paura, sofferenza e morte. A questo quadro generale si affianca quello più ristretto della storia di Amin che è costretto continuamente ad adattarsi camaleonticamente ai contesti nei quali si trova, perdendo infine totalmente in senso del suo io interiore e rendendo una gran parte della pellicola una enorme richiesta d’aiuto e d’ascolto.

Molti espedienti adottati o mancati dal film possono essere messi in discussione ma sicuramente tra questi non rientrano gli ultimi meravigliosi fotogrammi della pellicola che, in modo stupendamente meta-cinematografico, abbattono la struttura filmica fin lì adottata per regalare tramite un espediente di montaggio, l’unico elemento prettamente cinematografico, una grandissima emozione a noi spettatori, ricalcando in tal senso, seppur in tono minore, lo splendido e straziante finale di “Close-Up” di Abbas Kiarostami, con uno dei controcampi più significativi della storia del cinema.

Voto: 7,5/10

Alessio Minorenti

Andrea Boggione8
Paolo Innocenti
Paola Perri
Andrea Barone
Christian D’Avanzo8,5
Giovanni Urgnani
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