Articolo pubblicato il 6 Aprile 2022 da wp_13928789
È il 1973, Sergio Leone ha da pochi anni finito di girare “Giù la testa”, il suo ultimo film, sebbene non propriamente un western, ambientato nel vecchio West. Inizierà per lui un lungo periodo sabbatico che lo rivedrà accreditato dietro la macchina da presa solo nel 1984 per “C’era una volta in America”. Nel frattempo però non abbandona il cinema e si dedica alla produzione di più di una pellicola. Una di queste è “Il mio nome è Nessuno”.

Alla sceneggiatura e alla regia, due firme note dello Spaghetti Western: Ernesto Gastaldi e Tonino Valerii. Come protagonisti un grande volto del Cinema americano come Henry Fonda, che aveva già preso parte a “C’era una volta il West” e Terrence Hill, il nuovo volto di quella commedia Western all’italiana che aveva ormai preso piede nel bel paese grazie a “Lo Chiamavano Trinità…” di cui è era stato tra l’altro protagonista. E sarà proprio questo continuo mischiarsi tra vecchio e nuovo che darà alla pellicola un tono molto particolare che tocca tutti i sottogeneri del nostro cinema con speroni e pistola.
Protagonista è “Nessuno”, un giovane senza nome e senza particolari ambizioni la cui strada senza meta si imbatte in quella di Jack Beauregard, vecchio cacciatore di taglie dalla fama leggendaria ormai sul viale del tramonto, disilluso e pronto a partire per l’Europa. Trovatosi di fronte a quello che è sempre stato il suo idolo di infanzia Nessuno si prefiggerà un obiettivo: far uscire di scena il suo eroe con un ultima memorabile impresa. L’incontro tra i due porterà entrambi a cambiare le proprie prospettive e si delineerà con il tempo come un vero e proprio passaggio di consegne tra vecchio e nuovo West. Passaggio di consegne dalla forte valenza metà cinematografica, riflettendosi per l’appunto sulla natura stessa del film, a metà tra il vecchio concetto di Spaghetti Western e quello che stava diventando il genere negli anni ‘70.
Sergio Leone in questo, riprende una riflessione e un tema che aveva già affrontato in “C’era una volta il West”, l’evoluzione inevitabile che l’avvento della modernità, Rappresentato da quella locomotiva centrale nel suo capolavoro tanto quanto in questa pellicola, ha apportato al selvaggio West, sempre meno selvaggio e sempre più strutturato. I tempi dei pistoleri erranti, dei cacciatori di taglie e dei duelli (a cui Leone guarda con romantica nostalgia) sono ormai al tramonto per lasciare spazio a un mondo più industrializzato che porta con se una nuova criminalità più letale e organizzata. Evoluzione che paradossalmente si ripercuoterà anche nel cinema di genere che abbandonerà pian piano il western che aveva dominato gli anni ‘60 per dedicarsi sempre più al Gangster Movie nel decennio successivo.

Sebbene Sergio Leone non compaia alla regia, ci si rende subito conto che il comparto produttivo è quello: costumi, trucco e scenografie ci riportano subito nel mondo del regista romano. La regia però non raggiungerà mai i suoi fasti, tranne in poche sequenze (l’inizio, e la scena di Jack contro Il mucchio selvaggio su tutte) non a caso per le quali sembra che ci sia proprio il suo zampino. Per il resto Tonino Valerii ha un approccio più leggero e scanzonato, più vicino a “Trinità” che a “un pugno di dollari” ma non mancheranno sequenze memorabili anche tra quelle meno “impegnate”, come la celebre sfida con i bicchierini di whisky al bar. A far da cornice al tutto sarà però, come sempre, la splendida colonna sonora di Ennio Morricone, bilanciata con intelligenza al dualismo del film. Da un loro sonorità epiche per i momenti più leoniani, dall’altro sonorità giocose e sui generis per i momenti più di commedia, perfettamente ibridate tra loro. Se magari effettivamente da un punto di vista di regia una difformità nello stile e nell’atmosfera tra le diverse sequenze emerge prepotentemente, sarà proprio Ennio Morricone a fare da collante al tutto.
Veramente ottime le prove dei due attori protagonisti. Terence Hill probabilmente ci regala la migliore interpretazione della sua carriera, scanzonata ma perfettamente bilanciata, mentre Henry Fonda, che non ha certo bisogno di presentazioni, infonde sapientemente il suo Jack Beauregard di un’aura paterna, calda e malinconica. L’alchimia tra i due si sente ed i loro scambi di battute sono probabilmente l’aspetto più bello ed interessante della pellicola.

“Il mio nome è Nessuno” non è certamente un film perfetto ma è assolutamente consapevole della sua imperfezione. Uno strano ibrido che non sempre sa che direzione prendere ma che quando lo fa sa regalarci momenti mozzafiato, come quando Jack e li da solo, dietro le rotaie, la musica piano piano incalza, la macchina da presa lentamente si allontana e il suo avversario, l’obiettivo della sua ultima memorabile impresa, gli si mostra davanti in tutta la sua disarmante epicita. Momenti da brividi, momenti di grande cinema che solo i grandi sanno realizzare.
– Carlo Iarossi