L’antica Roma al cinema: Il primo re (2019)

Il regista Matteo Rovere rielabora il mito della fondazione di Roma, focalizzandosi sul ruolo dell’essere umano all’interno del disegno divino. Nell’articolo l’analisi del film.

Articolo pubblicato il 5 Marzo 2024 da Giovanni Urgnani

Distribuito nelle sale italiane il 31 gennaio 2019, diretto da Matteo Rovere e co-scritto insieme a Francesca Manieri e Filippo Gravino. La fotografia è curata da Daniele Ciprì mentre la colonna sonora è composta da Andrea Farri. Il cast è composto da: Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Tania Garribba, Massimiliano Rossi, Vincenzo Crea e Gabriel Montesi. Candidato a quindici David di Donatello, vincitore nelle categorie: miglior produttore, miglior autore della fotografia e miglior suono.

La bellezza nell’attingere alla mitologia è avere l’opportunità di rappresentare sotto una nuova forma storie collaudate, conosciute di generazione in generazione che rimangono immortali grazie a chi riesce a adattare il passato al presente. I protagonisti di questa versione del mito della fondazione di Roma sono due fratelli legati da un affetto viscerale poiché sono ciò che rimane della loro famiglia. L’affetto che li unisce è sincero e profondo, entrambi sarebbero disposti a sacrificare le proprie vite per salvare quella dell’altro, purtroppo però tutto questo cambierà a causa di un’entità tanto naturale quanto istintiva: la fede. Remo, il fratello maggiore a cui è stato affidato il compito di dover proteggere il suo futuro assassino, pare in tutto e per tutto il predestinato, colui che adempierà alla profezia grazie alle sue qualità: forza, temperamento, abilità di leader, coraggio e fermezza. Il suo timore verso gli dèi è convenzionale, sempre di più cresce la convinzione di avere la possibilità di decidere del proprio destino e di quello altrui, contando solo sulle proprie forze; Romolo al contrario è una persona molto religiosa, all’inizio della pellicola la sua voce mentre recita una preghiera ci giunge prima ancora delle immagini. La sua devozione è cieca, pone la propria esistenza nelle mani delle divinità condizionando ogni decisione, ogni passo, ogni strategia cosicché niente e nulla può diventare più importante, si cristallizza al primo posto.

A conti fatti, quello che mette irreparabilmente i due fratelli l’uno contro l’altro è l’interpretazione degli elementi che ci circondano, c’è chi non vede nulla oltre alla materia mentre altri li percepiscono come concretizzazione di entità superiori. Tale percezione è influenzata da coloro che si prodigano nel fare da ponte tra uomo e divinità. Per far sì che il culto generi timore sono necessarie particolari abilità, diventa fondamentale riuscire a comunicare con un certo tipo di linguaggio, con un certo tipo di gestualità e con un certo tipo di sguardo. Con il giusto mix di queste caratteristiche si può ottenere un potere potenzialmente immenso, poiché riuscendo a trasmettere credibilità si allieta il bisogno di sapere il perché, di sapere come o di chiedere l’onere della prova. Affascinante come si possa mettere a confronto, sotto questa luce, l’aspetto religioso e l’arte cinematografica, non è del tutto errato teorizzare che il sacerdote e il regista in fondo intraprendono la stessa missione: attraverso giochi di prestigio si rende vero quello che vero non è. La sequenza regina da cui scaturisce questo discorso riguarda la vestale circondata da una decina di uomini armati, decisi a varcare la soglia. Grazie all’unione per l’appunto di sguardo, gesto e voce incute paura e senso di debolezza annientando ogni velleità di contrasto e prevaricazione.

Una caratteristica principale della pellicola è senza dubbio la recitazione in protolatino, con l’ausilio quindi dei sottotitoli per una normale fruizione. Una scelta che sicuramente risulta suggestiva e assai azzeccata nel contesto generale caratterizzato dalla verosimiglianza; infatti, risulta assai efficace la trasposizione della violenza, della condizione ambientale e di vita dell’epoca colmo di sangue e fango. Allo stesso tempo è evidente l’intento di varcare i confini cinematografici italiani, complice anche la co-produzione straniera, evitando così il ricorso potenzialmente problematico del doppiaggio, soprattutto per i paesi anglofoni, in cui tale pratica non è diffusa. La criticità, col senno di poi, è stato limitare alquanto la capacità di successo a casa nostra, dato che non è assolutamente radicata l’usanza tra il grande pubblico di vedere i film in sala sottotitolati, ed è un grosso problema visto che l’obiettivo era sicuramente quello di raggiungere il più ampio raggio possibile. Il vero grande difetto forse sta proprio qui, nell’aver guardato troppo fuori dalla finestra senza badare troppo all’arredamento interno.

Voto:
4/5
Andrea Barone
5/5
Andrea Boggione
3.5/5
Christian D'Avanzo
4/5
Carlo Iarossi
4.5/5
Paolo Innocenti
4/5
Carmine Marzano
2.5/5
Alessio Minorenti
4/5
Paola Perri
3.5/5