Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades: un alter ego sovrabbondante

Articolo pubblicato il 8 Maggio 2023 da Andrea Barone

A pochi anni dal successo di Revenant, Alejandro González Iñárritu presenta in concorso a Venezia 79 il suo personalissimo Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades raccontando il viaggio commovente e intimo di Silverio, un noto giornalista e documentarista messicano che vive a Los Angeles; dopo aver ottenuto un importante riconoscimento internazionale, si vede costretto a tornare nel suo paese natale, senza sapere che questo comporterà per lui il sorgere di una profonda crisi esistenziale immergendolo in un sogno subcoscienziale.

Alter ego del regista, Silverio rappresenterebbe l’anima spaccata in due del regista a metà tra due paesi: il Messico in cui è cresciuto e ha radici, e gli Stati Uniti divenuti casa attuale dove è riuscito ad affermarsi internazionalmente lanciando completamente la sua carriera di artista. Di fatto non c’è differenza sul piano concettuale tra il mondo giornalistico e quello cinematografico sicché è espandibile all’arte tout court. Tralasciate le nobili intenzioni di raccontare sé stesso attraverso sequenze oniriche suggestive e dialoghi tra il protagonista e le persone presenti nella sua vita, e tralasciando anche una tecnica ammirevole tra scenografie, cambi di fotografia in corsa, montaggio fluido, carrelli, piani sequenza, grandangoli, c’è da dire che purtroppo in questo film poco o niente funziona. L’elemento maggiormente autentico risulta il cast palesemente divertito dalla sfida (e ben diretti dal regista, certo), e in un’opera personale ciò è un problema di peso. Lo si deve principalmente alla mancanza di una reale urgenza di raccontare e raccontarsi, tra l’autoreferenzialità e il citazionismo, Iñárritu si perde nella vita reale senza riuscire a dipingerlo come a suo tempo fece Fellini in 8½ nel ruolo del regista confuso e ingabbiato dal blocco poetico. L’ego qui la fa da padrone, molto attento alla forma ma confuso nella realizzazione sostanziale poiché a nulla serve mostrare riferimenti diretti alle intime opere felliniani quali 8½ e Amarcord se si riesce a dare una funzionalità a tali passaggi. Ad arrecare ancor più danno abbiamo l’eccessiva durata (3 ore) e il fastidioso, abbondante ed inutile didascalismo che accompagna perennemente la narrazione spiegando qualsiasi cosa compaia su schermo. Il che risulta una scelta davvero incomprensibile dal momento in cui ci sono frasi e scene ridondanti per chiarire concetti che non avrebbero bisogno nemmeno una volta soltanto di spiegazioni, figuriamoci due o tre nel breve termine.

Spiazzante come il regista messicano non riesca nemmeno a fare una scelta ponderata tra le due nazioni contrapposte all’interno del film: parte come un messicano in circa di opportunità grato alla propria terra, pronto a difenderla appena un “gringo” ne parla male, finendo successivamente per rinnegarla a causa della malinconica povertà e dei ritmi di vita blandi. Interessante in un primo momento la rappresentazione storica in ambienti moderni dell’invasione americana in Messico, eppure al di là di qualche battuta su Amazon che vuole comprare la bassa California, la dualità americana-messicana resta in superficie. Il protagonista si pone come uno che ce l’ha fatta, per niente in pena per la sua gente, la cui sofferenza, sembra non interessargli davvero perché in 3 ore di film afferma più volte di restarci male solo quando i suoi connazionali, amici ed ex-amici in particolare, lo trovano ormai abbindolato ma arricchito dagli Stati Uniti; inoltre suppone di essere stato premiato solo per dimostrare l’apertura mentale dell’America dinanzi al mondo, una questione puramente politica e non meritocratica. E le radici dove sono? Se ne interroga durante le riprese dei suoi documentari, ma la messa in scena lascerebbe intendere che gli intenti sono solo a scopo di lucro. Insomma l’eccessivo ego si riflette in tutto, sia per 3 ore di “bella vita”, ma persino nei dialoghi dove Iñárritu cerca già di anticipare le critiche che potranno esser mosse a quest’ultimo film, ed in parte al precedente Revenant, in un raccapricciante siparietto con il suo amico della televisione. Il surrealismo mosso dalle sequenze oniriche è fine a sé stesso, al passo con i tempi si cercano spiegazioni a qualsiasi elemento, persino all’opera tutta da come è stata concepita, con l’inelegante finale che si distacca totalmente da quella che era l’idea di onirismo felliniano.

Troppo impegnato a giustificarsi, il regista ingolfa il motore di una barca che non riesce mai a navigare, andando inutilmente lento lascia a galla lo spettatore per 3 ore ad ascoltare e vedere un didascalismo (ego) sovrabbondante. Sarà che Iñárritu avrà considerato basso il quoziente intellettivo di chi lo guarda e segue? A voi la risposta, quando lo guarderete su Netflix. A tal proposito, speriamo venga messa mano alla post-produzione perché in alcune scene la CGI è troppo altalenante.

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