Articolo pubblicato il 8 Novembre 2022 da Bruno Santini
Nel vasto panorama delle case di produzioni indipendenti, quella dello studio irlandese Cartoon Saloon, si pone come una piccola realtà, che tra tante avversità, alla fine è riuscita a farcela, in un mondo dove l’animazione in occidente è totalmente surclassata dagli agglomerati americani, che rendono impossibile lo sviluppo di qualsiasi alternativa in Europa.
Fondata nel 1999 a Kilkenny, da Tomm Moore e Paul Young, dopo 10 anni di sacrifici, riuscirono ad ottenere fama internazionale tramite la loro prima produzione; The Secret of Kells (2009), ottenendo un’insperata nomination agli oscar come miglior film d’animazione.
Subito giunsero offerte importanti, ma lo studio decise di continuare la strada nell’indipendenza, bissando il successo con La Canzone del Mare (2014).
I lungometraggi animati si segnalano entrambi per un character design spigoloso, che ben si presta a dare vita ai recessi profondi del folklore delle antiche mitologie irlandesi, usate come soggetti base per i film.
Al terzo lungometraggio, Wolfwalkers – Il Popolo dei Lupi (2020), la formula non cambia e la distribuzione da parte di Apple, ha consentito al film di poter arrivare anche al di fuori della solita nicchia, ottenendo inoltre un’altra nomination come miglior film d’animazione, la terza per Tomm Moore (qui in co-regia con Ross Stewart).
La Trama di Wolfwalkers – Il Popolo dei Lupi di Tomm Moore e Ross Stewart
Robyn, una giovane inglese, che si vorrebbe essere un’apprendista cacciatrice, giunge con suo padre in Irlanda, per cacciare l’ultimo branco di lupi, che devasta i sobborghi del posto.
Ma quando Robyn salva Meth – una ragazza nativa della foresta, che di notte diventa un lupo – instaura con lei ed i lupi, una profonda amicizia, scoprendo così il mondo dei Wolfwalkers, trasformandola in ciò che suo padre ha il compito di distruggere.

Recensione Wolfwalkers – Il Popolo dei Lupi: l’uso politico-identitario della mitologia irlandese nel film di Tomm Moore e Ross Stewart
Nella spigolosità del character design tipico dello stile dello studio d’animazione Cartoon Saloon, che si esalta tramite la composizione a strati dei fondali; l’apparente bidimensionalità visiva di Wolfwalkers – Il Popolo dei Lupi (2020), cela un nucleo pulsante di vitalità, traente origine dai miti irlandesi di cui questo film si pone di una sorta di trilogia tematica, cominciata con Il Segreto di Kells (2009) e la Canzone del Mare (2014), seppur a livello narrativo risulti più lineare e basico rispetto alle opere precedenti, che amavano immergersi nell’atmosfera pregna di antiche leggenda perdute nel tempo, in un gioco di scatole cinesi senza fondo, come immerse in un sogno eterno.
La maggior semplicità non deve essere confusa come superficialità o peggio banalizzazione; anzi, rivela una maturità di un Tomm Moore oramai capace di far assimilare allo spettatore di ogni latitudine del globo, elementi del tutto estranei alla propria cultura, pur non rinunciando al proprio stile, che qui risulta più affinato, nel mettere in scena lo scontro tra la visione cristiana della civiltà inglese e gli antichi miti stratificati nel corso dei secoli dell’Irlanda.
La foresta abitata dai lupi e minacciata dal disboscamento dei taglialegna, trova il suo custode massimo, nella Wolfwalker di nome Mebh, una bambina selvaggia dal fisico tozzo, capace di trasformarsi di notte nello spirito di un lupo e controllare tali animali. Alla foresta, con tutto il suo peso mitologico, si contrappone Kilkenny, nel 1650, città in piena espansione urbana, governata con il pugno di ferro dall’autoritario governatore e capo militare Lord Protector.
Egli si serve dell’inglese Goodfellowe, padre di Robyn ed abile cacciatore, per sbarazzarsi dei lupi che causano noie ai taglialegna. La figlia è poco propensa alla vita come addetta alle cucine, in quanto ardente di desiderio nel voler aiutare il proprio genitore. Paragonato da taluni critici alla Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki (1997), Wolfwalkers – Il Popolo dei Lupi, indubbiamente presenta elementi di affinità con la pellicola nipponica, seppur Tomm Moore da una parte, sia più manicheo nel tratteggio dei suoi personaggi – Lord Protector è lontano dalle sfumature presenti in Lady Eboshi -, mentre dall’altro, scava più in profondità a livello tematico, andando ben oltre il mero scontro tra civiltà e progresso, focalizzando l’analisi su un piano politico-sociale, sfruttando così per la prima volta il mito in una chiave nazionalista-identitaria, contro forze esterne oppressive.

Recensione Wolfwalkers – Il Popolo dei Lupi: il tridimensionale ed il bidimensionale nel film di Tomm Moore e Ross Stewart
Il film quindi, guarda al passato, per porre in essere una lettura del presente; l’occupazione cromwelliana dell’Irlanda, ha cancellato via un patrimonio di tradizioni più che millenarie presenti nell’isola, tramite uno spietato regime colonialista, facendo di tale paese “un territorio dipendente rispetto all’Inghilterra” (Karl Marx).
La giovane inglese Robyn, risulta ostile di principio ai lupi, senza comprendere le ragioni dietro i loro attacchi; solo la conoscenza sulle antiche leggende, nonché la reale consistenza di esse tramite la figura di Mebh, le consentiranno di instaurare un dialogo con la parte opposta e comprendere l’ingiustizia perpetrata da suo padre e da Lord Protector, passando così da “colonizzatrice” a “colonizzata”, da carnefice a vittima, nel momento della sua trasformazione in Wolfwalker.
Il divenire un lupo nelle ore notturne, consentirà a Robyn di vedere la realtà del mondo da una prospettiva differente, liberandosi dalla piattezza fredda della città in espansione, scegliendo di scorrazzare liberamente nella foresta, dalla variopinta tavolozza di colori, atta a risaltare la multiforme stratificazione arborea, la quale cela diversi mondi nascosti alla vista dell’uomo, con tutto il suo carico di riti ancestrali dall’ultra-millenaria tradizione “pagana”, malamente liquidata da Lord Protector come mera stregoneria da estirpare, per fare posto alla “vera fede”. L’imposizione della religione cristiana d’imperio, così come l’affetto sincero ma asfissiante del padre, reprime l’indole di Robyn, obbligata in quanto femmina, a condurre una vita inautentica nel retrocucina, come vuole la morale dell’epoca. Una prigione senza sbarre, le cui restrizioni però le sono inculcate dalla società.
Solamente quando la ragazza abbraccerà appieno, le antiche leggende pagane tramandate dagli irlandesi di generazione in generazione, finalmente potrà liberare la sua chioma bionda all’aria, con tanto di animazione che diviene “tridimensionale” nella profondità e nei paesaggi, quando invece “schiacciava” in precedenza, la longilinea figura della giovane, come se fosse una figura ornamentale su di un antico arazzo d’epoca.
Un forte inno anti-colonialista ed anti-imperialista. Tomm Moore partendo sempre da una base fiabesca, che a lui è sempre andata bene, giunge a conclusioni narrative differenti rispetto ad una produzione Disney-Pixar, toccando corde profondissime a livello emotivo, nel suo voler incitare alla comprensione quanto al rispetto per il diverso e l’ambiente. L’apparato visivo anti-convenzionale, contribuisce a rappresentare anche tramite le immagini, lo scontro tra il cristianesimo d’imperio ed il paganesimo di una foresta, che vorrebbe vivere secondo le proprie regole, divenendo punto d’incontro per due ragazzine differenti per mentalità, ma entrambe alla ricerca di un posto a cui appartenere. Nomination agli oscar miglior film d’animazione, andata purtroppo a vuoto, a scapito di quella robetta di Soul (2020) della Pixar, però il tempo saprà sicuramente riconoscere il valore di questo capolavoro del cinema.