Alejandro González Iñárritu: la carriera del regista da Amores Perros a Bardo

Alejandro Gonzalez Inarritu carriera da Amores Perros a Bardo

Articolo pubblicato il 16 Novembre 2022 da Bruno Santini

Alejandro Gonzalez Inarritu è uno dei registi più importanti che si siano distinti nell’ambito del cinema contemporaneo: da Amores Perros a Bardo, come si è evoluta la carriera del regista messicano? Ecco tutto ciò che c’è da sapere a proposito della carriera di Alejandro Gonzalez Inarritu.

Gli inizi: Amores Perros, 21 grammi, Babel e Biutiful

La carriera di Inarritu è stata, fin dall’inizio, a dir poco in ascesa: dal debutto cinematografico datato 2000 con Amores Perros, passando per 21 grammi (2003), Babel (2006) e Biutiful (2010), ha da subito ottenuto un grandissimo successo di pubblico e critica, ottenendo candidature e premi nei più prestigiosi festival cinematografici del mondo (divenendo, inoltre, il primo regista messicano della storia a vincere il premio per la miglior regia al Festival di Cannes). Questo grande successo ha certamente consentito al regista di Città Del Messico una notevole autonomia ma, allo stesso tempo, ha lasciato degli strascichi visto che, dopo il successo di Babel, i rapporti tra Inarritu e lo sceneggiatore ed amico Guillermo Arriaga si sono interrotti bruscamente. 

 

La sua carriera fino a questo momento è un vero e proprio trionfo : riesce a girare i film che vuole, con gli attori che desidera ed ottenendo riconoscimenti in tutto il mondo. I premi non sono assolutamente sinonimo di qualità, eppure Inarritu è di fatto uno dei più grandi talenti del cinema contemporaneo. Il suo stile ricorda il neorealismo, la maniera cruda, netta e fredda con cui segue i suoi personaggi e racconta le difficoltà della vita, l’elaborazione del lutto, la perdita, l’amore. Ad un regista del genere, l’immaginario collettivo direbbe che manca solo una cosa: Hollywood.

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Il successo agli Oscar con Birdman e Revenant

Dopo quattro anni dal suo ultimo lungometraggio, Inarritu torna nel 2014 con Birdman: è il suo primo film in digitale e, dopo una lunga collaborazione con Rodrigo Prieto, decide di affidarsi per la direzione della fotografia ad un altro messicano, Emmanuel Lubezki, sodalizio che proseguirà anche l’anno seguente con Revenant. Questi due film segnano un vero e proprio spartiacque nella carriera di Inarritu perchè, se indubbiamente queste due opere lo portano alla definitiva consacrazione mondiale, andando a conquistare anche gli Stati Uniti ed entrando nella storia con le due statuette consecutive vinte come miglior regista (c’erano riusciti, prima di lui, solo John Ford e Joseph L. Mankiewicz), allo stesso tempo sembra allontanarsi dallo stile che lo aveva contraddistinto e, nel caso di Revenant, sembra perdere d’occhio il bilanciamento tra forma e sostanza a favore della prima. La qualità non è mai mancata, eppure sembra che qualcosa dentro di lui sia cambiato, 

La lunga pausa e il ritorno con Bardo: le differenze con le opere precedenti

Inarritu decide di fermarsi per ben 7 anni e torna al cinema solo nel 2022 con Bardo: la cronaca falsa di alcune verità. Esso rappresenta un ritorno alle origini, alle proprie radici e, allo stesso, tempo, una netta rottura con tutto ciò che, negli anni, lo aveva portato ad un incredibile successo. E’ il primo film in lingua spagnola dai tempi di Biutiful, un ritorno alla pellicola dopo due film girati interamente in digitale (Birdman e Revenant) e, per la prima volta, la fotografia non è curata da un messicano ma dall’iraniano Darius Khondji e si occupa lui stesso del montaggio del film. Soprattutto però, è un ritorno a casa, essendo il primo film dai tempi del suo debutto con Amores Perros, ad essere girato in Messico.

 

Bardo è passato quasi in sordina (nonostante la sua partecipazione in concorso a Venezia79), bistrattato dai più per il modo in cui affronta i problemi del Messico dall’alto del suo successo e dal suo, forse, essere diventato più americano che messicano e per il suo manierismo e per la mancanza di veri contenuti. Nonostante le critiche abbiano, perlopiù, un fondo di verità, il film va però visto in un’altra ottica, va intepretato come uno stream of consciousness, come un non-film in cui Inarritu parla con se stesso allo specchio, cercando di psicanalizzarsi e senza interessarsi troppo dello spettatore e del riscontro effettivo che il film può ottenere. E’ un’opera di Inarritu, per Inarritu. Le sue posizioni possono essere criticate ma, all’interno di un’opera del genere, non potrebbe essere altrimenti perchè Inarritu non è altro che un uomo. Niente di più. L’uomo è fallace, sbaglia. Lui lo sa, si sente in gabbia e si spoglia di tutto ciò che lo ha portato fin lì, per ritrovare le proprie radici e rinascere. L’esito di questo lavoro però lo scopriremo solo col tempo.