Guillermo Del Toro – Monografia: Parte 1 – il travagliato esordio di un genio

Articolo pubblicato il 20 Dicembre 2023 da Bruno Santini

Per introdurre un personaggio come il regista Premio Oscar Guillermo Del Toro non servirebbero troppe parole, basterebbe dare semplicemente un’occhiata alla sua dimora nella San Fernando Valley in California. Denominata dal padrone di casa Bleak House – in onore del nono romanzo di Charles Dickens del 1852 – quelle 4 mura, dallo stile sinistramente vittoriano, racchiudono un vero e proprio museo del cinema e della letteratura, con statue a grandezza naturale del Mostro di Frankenstein, del Pazuzu de “L’Esorcista” e di altri terrificanti personaggi derivanti anche e soprattutto dalla filmografia del regista messicano. Insomma, un vero e proprio parco dei divertimenti per colui che si è sempre definito un semplice “bambino che ama i mostri”, perché di questo si sta parlando. Del Toro attraverso il suo lavoro artistico ha sempre affrontato – e continua ancora oggi a raccontare – gli orrori e le crudeltà della vita reale di tutti i giorni, tenendo a cuore anche critiche e drammatiche situazioni belliche, attraverso gli innocenti e fantasiosi occhi di un bambino. I mostri e il mondo magico diventano così il gioco infantile di un fanciullo per interpretare il grigiore quotidiano, per sperimentare nuove emozioni ed avventure, per empatizzare verso il diverso (il mostro), o un semplice intrattenimento per divertirsi con le proprie marionette (sarebbe interessante aprire il baule di ogni persona in cui vengono custoditi i propri giocattoli d’infanzia e contare quanti mostri, animali e alieni vengono in esso contenuti).

Un certo feticismo ed amore verso il fantasy (in particolare il dark-fantasy) che nasce sin dai primi anni di vita per l’influenza che la stessa famiglia di Del Toro ha esercitato su di lui, che si è saputo amplificare a causa di spiacevoli vicende biografiche e che ha cementato le solidissime basi di una filmografia divenuta iconica, tanto per il suo aspetto concettuale quanto per il riconoscibile tratto estetico. Si cercherà così di ripercorrere le tappe principali della carriera del regista messicano, proseguendo in ordine cronologico e cercando di analizzare la sua poetica d’autore attraverso i suoi lungometraggi, ma anche e soprattutto le sue esperienze di vita.

Guillermo Del Toro – Monografia: l’infanzia e i primi “sospiri”

Ripercorrere brevemente l’infanzia e le prime esperienze cinematografiche di Guillermo Del Toro non risultata solo ed esclusivamente funzionale alla stesura dell’articolo. È una tappa obbligata soprattutto per inquadrare al meglio la figura di un artista che, nella realizzazione delle sue opere, attinge sempre dalla propria esperienza, aggiungendo uno stile personale tanto nella sua esposizione estetica quanto soprattutto nell’affrontarne concettualmente il suo contenuto.

Del Toro nasce a Guadalajara il 9 ottobre 1964 da una famiglia piccolo borghese, di fatto a nemmeno un mese di distanza dalla celebrazione della tipica festa messicana del Día de los muertos, a cavallo con il mese di novembre. L’usanza, ormai divenuta celebre in tutto il mondo, porta avanti infatti un’importante tradizione folkloristica grazie al sincretismo tra l’antica cultura preispanica e il cattolicesimo: un aspetto spirituale, che si divincola nel labile confine tra vita e morte, che assolutamente non va sottovalutato per affrontare appunto la figura di Del Toro. La nonna di Guillermo, dalla quale spesso si fermava a dormire la notte, ha impartito una rigida formazione cattolica al nipote, mentre la madre Guadalupe praticava la lettura dei tarocchi oltre che la poesia. Ma forse, il membro della famiglia che ha più inciso sulla futura esperienza lavorativa di Del Toro, è stato lo zio, a cui era particolarmente legato: tra giochi e divertimento, iniziò a raccontare a Guillermo fin da piccolo leggende popolari, storie magiche e soprattutto lo indirizzò verso i racconti dell’orrore, facendogli scoprire in particolar modo Edgar Allan Poe e H. P. Lovecraft. Un evento tanto curioso quanto significativo venne raccontato dallo stesso regista messicano durante un’intervista al Guardian. Quando aveva 12 anni Del Toro stava guardano la TV insieme allo zio e in quella occasione i due strinsero un patto: qualora uno dei due dovesse morire, tornerà dall’altro per dirgli che stava bene, confermandogli che la vita dopo la morte esiste. Un giorno poco distante da quello, mentre il piccolo stava svolgendo i compiti da routine, Guillermo venne disturbato da una strana sensazione, simile ad un sussurro, un sospiro. Tese l’orecchio verso il materasso su cui era poggiato, sentendo che lo strano “respiro” provenisse da lì e sentì la voce dello zio, prima di fuggire terrorizzato dalla stanza, per poi scoprire dai suoi che l’amato parente se ne fosse andato. Così ha inizio la sua storia.

Guillermo Del Toro – Monografia: la gavetta e le prime esperienze nel mondo del cinema

La difficile realtà vissuta tra le pericolose strade messicane si stringeva fortemente coì con lo spiritualismo religioso, la vita con la morte, l’orrore con la magia, iniziando a plasmare la poetica e l’autorialità di un alchimista alle prese con le proprie creazioni. Già da piccolo – e grazie soprattutto all’influenza dello zio – inizia a covare uno spassionato amore verso le materie plastiche e manuali: inizia a costruirsi maschere soprattutto da indossare per le festività, piccole sculture per adornare la casa, arrivando ovviamente al disegno e alle arti illustrative. A soli 8 anni, da piccolo grande appassionato di cinema, inizia a sperimentare la ripresa con una videocamera Super8 del padre, riprendendo i propri giocattoli e producendo nel corso degli anni decine di cortometraggi: da una “patata serial killer” fino alla commedia horror-fantasy “Geometria” del 1987, dove un ragazzo evoca un demone per superare un esame appunto di geometria. Pupazzi e giocattoli che tornano anche nell’idea del primo lungometraggio di Del Toro, il quale sarebbe dovuto essere un film d’animazione in stop-motion, con lui ed il suo team che sono riusciti a costruirne il set e fabbricare circa 100 pupazzi. Ma la disgrazia è sempre dietro l’angolo nella vita del regista messicano: una notte dei vandali hanno svaligiato lo studio e distrutto i burattini e le scenografie, mettendo fine al suo agognato e sudato progetto (un sogno che però, alla fine di questa storia, si è finalmente realizzato).

Riguardo agli studi, Guillermo Del Toro studiò al Centro de Investigación y Estudios Cinematográficos presso l’Università di Guadalajara specializzandosi nella stesura delle sceneggiature. Tuttavia, anche per continuare la propria passione verso le materie plastiche, inizia dei corsi di effetti speciali e trucco seguendo i seminari e i laboratori del celebre effettista Dick Smith (“Il padrino”, “L’esorcista”, “Taxi Driver”, “Il cacciatore”), passando i successivi 10 anni come truccatore ed arrivando anche a fondare la sua personale compagnia di effetti speciali denominata Necropia. Passione sfrenata verso il cinema che lo porta, inizialmente a scrivere un libro biografia su uno dei suoi registi preferiti (Alfred Hitchcock) durante il periodo di studi e nel 1986 – all’età di soli 22 anni – a co-fondare, insieme ad altri registi ispanici, il Festival internazionale del cinema di Guadalajara, che annualmente nel mese di marzo ospita una rassegna cinematografica della durata di una settimana, al termine della quale vengono assegnati i premi Mayahuel. Dopo quasi 15 di gavetta nel mondo del cinema – anche come sceneggiatore ed aiuto-regista, oltre che effettista – arrivano finalmente gli anni ’90 e il debutto di Del Toro dietro la macchina da presa per il grande schermo.

Cronos: il debutto cinematografico tra sangue ed ingranaggi

<<In Messico la religione cattolica è molto sentita e glorificata, abbiamo immagini di santi molto forti, soprattutto quelli filippini, che hanno delle fratture esposte, delle ossa scoperte. Mi ricordo da bambino un Gesù nella mia chiesa locale che era rappresentato con delle ossa viola e verdi. Quando ho visto Frankenstein aveva la stessa aria tragica, e ho pensato fosse una sorta di messia. I mostri sono diventati dei marcatori della normalità, nel senso che sono stati uccisi dai cosiddetti normali, e alla mia età non ho ancora capito cosa “normale” voglia dire! Non lo capisco e credo che quello che viene considerato standard sia in realtà distruttivo, perché se essere normale significa essere perfetto allora non è possibile. I mostri per me sono i santi patroni dell’imperfezione e io prego loro tutti i giorni perché siamo tutti imperfetti.>>

Come unisci la tua passione ed interesse verso la figura dei mostri e – più in generale – la fascinazione verso il dark fantasy, con la tua impostazione educativa d’infanzia da cattolico? Beh, ovviamente debuttando nel cinema con un horror che rappresenti la passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo che è, in fin dei conti, un vampiro. Proprio nel periodo in cui, una delle figure folkloristiche più celebri ed iconiche nel panorama orrorifico stava iniziando a subire un vertiginoso processo di modernizzazione al cinema – rispetto alle classiche apparizioni iconografiche sul grande schermo – ed appena un anno dopo il magistrale “Dracula, di Bram Stocker” diretto da Francis Ford Coppola, nel 1993 esce nelle sale l’opera prima di Guillermo Del Toro. Primo ed unico film realizzato in Messico (almeno fino ad ora), Cronos in realtà non ha di fatto nulla di cristologico – o meglio, non direttamente – sebbene il suo antiquario protagonista di nome Jesus Gris (Federico Luppi) scopra il segreto dell’eterna giovinezza attraverso un misterioso ed antico macchinario, che riuscirà anche a farlo risorgere dalla morte ad un prezzo tuttavia molto salato. Con la sua opera prima del 1993 Del Toro, pur soffrendo degli inciampi del debutto, realizza un audace biglietto da visita cinematografico che regala un’originale storia di vampirismo, affrontando con decisione l’inesorabile scorrere del tempo, la giovinezza e la possibilità della vita eterna per un uomo anziano. Il regista messicano inizia da qui a scrivere le sue personali sceneggiature per il cinema, ponendo le basi per la sua inconfondibile cifra stilistica nel saper raccontare e far provare al pubblico una dolce empatia verso il mostro, verso il diverso, con forte sdegno per una bella fetta viziosa del genere umano.

Un tratto autoriale che non colpisce solo la pungente scrittura, ma anche e soprattutto nel riconoscibile gusto gotico e fiabesco che si manifesta nella messa in scena, tanto nell’avvio della storica collaborazione con il direttore della fotografia Guillermo Navarro (iniziano i dualismi anche visivi e cromatici, nel contrastare da abile alchimista i colori più caldi del rosso sangue e dell’ambra dorata a quelli più freddi del blu tenebra e dell’umido verde muschio), quanto nella regia già d’alta scuola nei movimenti di camera, per trainare una storia dell’orrore che vive più per tensione e mistero, oltre che grandi interpreti con volti da dover ricordare. Sì, perché “Cronos” rappresenta la prima collaborazione anche con uno dei personaggi che si aggiungerà alla cerchia dei fedelissimi nella filmografia di Del Toro: l’attore statunitense Ron Perlman. Da “sconosciuto” messicano, Del Toro con “Cronos” inizia a costruirsi un nome, riscuotendo anche un degno successo di critica: viene presentato alla 46° edizione del Festival di Cannes durante la Settimana internazionale della critica, nella quale vince il Premio Mercedes-Benz per il miglior film, e viene designato come rappresentante messicano per gli Oscar. Per il regista era già arrivato il momento delle prestigiose porte di Hollywood, ma – come si è già visto dal furto dei modellini per il film in stop-motion e come ci sarà modo di notare in corso d’opera – la trappola è bella che servita. Perché una gioia, nella carriera di Del Toro, si lega indissolubilmente con un brusco imprevisto (e viceversa), nonostante il regista messicano riesca sempre e comunque con determinazione a proseguire nel suo lavoro.

Mimic: si aprono le porte di Hollywood, ma la chiusura è automatica

<<Io ho una sorta di feticismo per gli insetti, i meccanismi ad orologeria, i mostri e i luoghi oscuri. […] La cosa più interessante in natura è che esistono due specie, solo due specie, che sono espansioniste: l’uomo e gli insetti. Tutte le altre specie sono territoriali. L’insetto è un divoratore, continua ad espandersi tanto e non se ne cura nemmeno. E anche l’umanità è così… Le due specie che finiranno per lottare per il mondo saranno gli insetti e gli esseri umani.>>

Queste dichiarazioni dello stesso Guillermo Del Toro sono le basi perfette per la sua prossima avventura. Dato l’interessante successo del suo debutto nel cinema, nel 1997 – all’età di 33 anni – il regista messicano ricevette un budget di 30 milioni di dollari dalla Miramax Films dei fratelli Weinstein per girare il suo prossimo film, il monster-movie Mimic. Quello con protagonisti Mira Sorvino e Jeremy Northam (contando anche le presenze nel cast di Giancarlo Giannini e Josh Brolin) è un horror fantascientifico nel quale, per combattere una misteriosa epidemia causata da degli insetti che sta uccidendo i bambini di New York, la scienziata Susan riesce a ricreare geneticamente insieme al suo collega la “razza di Judas”, capace di sterminare il virus. Peccato che, anni dopo, quella stessa razza sia ormai fuori controllo, essendo stata capace di evolversi e di adattarsi alla vita oltre le aspettative, sapendosi diffondere rapidamente e costituendo una minaccia ancora più pericolosa. Ripetendosi come mantra <<ogni film è personale>> anche in “Mimic” sono presenti tutti gli stilemi dell’autorialità deltoriana, sebbene con non poche difficoltà soprattutto produttive. Come nell’opera precedente “Cronos” tornano infatti l’orrore – sotto la nuova veste fantascientifica – gli insetti (questa volta direttamente protagonisti) e un’altra ironica frecciata al cattolicesimo con la figura di un “moderno Giuda traditore”. Immancabile la figura del Mostro che, in questo caso (oltre ad assumere sembianze “aliene”), fa riferimento ad un’altra icona della letteratura fantastica: dopo il vampiro arriva il Mostro di Frankenstein. Amante di tutto il filone dei celebri “mostri Universal” (che ovviamente ritorneranno prossimamente), Guillermo Del Toro fa riferimento alla storica figura apparsa sullo schermo nell’indimenticabile film di James Whale del 1931 sotto due principali aspetti narrativo-concettuali. Il primo di questi, il più evidente, è la favola esistenziale che ruota attorno al personaggio del Dottor Frankenstein che, attingendo anche e sopratutto dalla mitologia classica, instaura una pietra miliare per il cinema e la letteratura di fantascienza: l’androide e la Creazione che sfugge, proprio come la “razza di Judas”. Il secondo aspetto è sicuramente più sottile, ma assolutamente attinente con la filmografia di Del Toro, ovvero l’emancipazione femminile e la lotta contro le disuguaglianze sociali. In quest’ultimo caso, non troppo velate le critiche verso la benestante società newyorkese (americana) che considera i senzatetto e gli immigrati dei semplici “scarafaggi” da dover schiacciare ed eliminare.

Quanto invece la trattazione dell’emancipazione femminile, oltre al personaggio in sé di Mary Shelley (autrice e scrittrice di Frankenstein, la quale tornerà più marcatamente nelle prossime trattazioni), la trama ruota di fatto su un peculiare concetto di maternità e di procreazione, con la protagonista chiamata a sconfiggere una figura maschile dominante che, soprattutto riletta oggigiorno, non può che suscitare qualche pensiero in più verso la metafora allo starsystem hollywoodiano. A quest’ultimo proposito, ci si ricollega strettamente ai problemi produttivi sopracitati, che hanno contribuito a legare la libertà artistica di Del Toro nella resa finale di “Mimic”. Innanzitutto, oltre alle rigide linee guida tecniche da rispettare (specialmente per il comparto fotografico), il personaggio di Manny è stato originariamente scritturato dal regista messicano per il “suo” attore argentino Federico Luppi già diretto in “Cronos”; tuttavia, la dirigenza della Miramax si oppose al suo casting per una pronuncia inglese non convincente. Inoltre, dopo che i fratelli Weinstein hanno visionato i primi filmati, ci sono stati forti litigi con Del Toro, arrivando addirittura al licenziamento del regista, poi scongiurato da un pronto intervento dell’attrice protagonista Mira Sorvino. A riguardo, Del Toro ha poi dichiarato nel 2018: “È stata l’unica volta in cui ho avuto un cattivo comportamento, e rimane una delle peggiori esperienze della mia vita…orribile, orribile, orribile lavorare con la Miramax“. Come se non bastasse e in conclusione, a Del Toro fu negato il privilegio del montaggio finale di “Mimic”, con il regista messicano che non ha conseguentemente approvato l’uscita del film. Un’esperienza che aveva tutti i presupposti per costituire una rottura totale con il mondo hollywoodiano, con Del Toro che fece infatti ritorno a casa propria in Messico, ma i problemi furono purtroppo appena incominciati. Poco dopo la fine delle riprese di “Mimic” infatti, nel 1998 il padre di Guillermo venne rapito proprio in Messico: il regista e produttore cinematografico James Cameron pagò 1 milione di dollari per il riscatto, liberando il padre Federico dopo 72 giorni di prigionia e costringendo la famiglia ad espatriare in California. Del Toro era diventato un immigrato messicano negli U.S.A., non tanto per volere diretto ma costretto dalla necessità di salvaguardare la propria famiglia, in un nuovo territorio dove aveva già mosso qualche passo. Il regista era diventato uno “scarafaggio” del suo stesso film; ma gli scarafaggi si sa, resistono anche all’atomica.