Guillermo Del Toro – Monografia: Parte 2 – I primi grandi successi internazionali

Articolo pubblicato il 20 Dicembre 2023 da Bruno Santini

Dopo aver tracciato sinteticamente i primi “sospiri” d’infanzia, la gavetta ed il debutto cinematografico nella Parte 1 della sua monografia, si continua ad analizzare la carriera del regista messicano Guillermo Del Toro iniziando ad immergersi nei suoi primi grandi successi internazionali. In seguito all’emigrazione in California per il fatto drammatico che ha travolto la famiglia, l’artista di Guadalajara cerca di ritornare (quasi utopicamente) alla vita di tutti i giorni. Inizia così una nuova fase della sua vita e della sua carriera che, inevitabilmente, sarà più strettamente legata all’industria cinematografica americana – soprattutto in termini di cinema commerciale e di blockbuster – ma senza perdere mai la personale poetica d’autore. Una strategia di commistione fra i due aspetti che gli permetterà di ottenere grande successo di pubblico e di botteghino, ma anche e soprattutto di critica con la prima esperienza diretta alla cerimonia dei Premi Oscar. Di seguito si tratteranno i seguenti film: “La spina del diavolo“, “Blade II“, “Hellboy“, “Il labirinto del Fauno“, “Hellboy II: The Golden Army“.

La Spina del Diavolo: si inizia a fare la storia, partendo dai fantasmi della Storia

<<Il sonno della ragione genera mostri.>>
Nonostante il momento storico sia emotivamente traumatico, Del Toro è comunque sempre più convinto nel proporre il suo cinema e non si da’ per vinto. Con questa determinata volontà di poter gestire il personale processo creativo, il regista messicano fonda la propria compagnia produttiva della Tequila Gang, iniziando ad ipotizzare un progetto tanto sentito quanto audace: una trilogia con ambientazione “fantasy storico” con cui poter denunciare e trattare l’ideologia fascista, da lui sempre aborrita. Inizialmente il “campo di battaglia” sarebbe dovuto essere proprio il Messico, poi accantonato in favore della Spagna per una serie di ragioni: i rinomati fratelli Almodòvar hanno contribuito fortemente a produrre il suo prossimo film; la penisola iberica ha rappresentato uno degli organi vitali più duraturi per il regime fascista; la maggioranza degli uomini di spettacolo, artisti ed intellettuali messicani apprezzati dallo stesso Del Toro costituivano di fatto famiglie di fuggitivi dalla delicata situazione socio-politica spagnola. La spina del diavolo del 2001, di fatto potrebbe rappresentare la vera opera prima di Guillermo Del Toro (la bozza venne già scritta addirittura prima di “Cronos”), libero finalmente di portare avanti la sua poetica senza vincoli, più che raddoppiando il budget a disposizione per il suo debutto. Ritrova anche il “suo” attore Federico Luppi in una ghost-story (ovviamente dopo il vampiro ed il mostro di Frankenstein, mancava giusto qualche fantasma) ambientata in un orfanotrofio durante la Guerra Civile spagnola del 1937. Mentre la minaccia delle truppe franchiste è sempre all’ordine del giorno, il potagonista del racconto è il piccolo Carlos che, appena arrivato nella struttura, inizia a percepire la presenza spettrale di un altro bambino.

Quella del 2001 è una splendida fiaba dark che riesce magistralmente a mescolare, nella stessa densa brocca, il reale mondo politico a quello fantastico ultraterreno: la cosiddetta spina del diavolo è il nome che viene attribuito, dalla superstizione religiosa, ad una deformazione proprio nella spina dorsale. Una storia di fantasmi per ironizzare ancora una volta sulla fede e la tradizione popolare che, soprattutto in questo caso, si lega indissolubilmente al machismo fascista: virilità, forza e perfezione fisica sono semi e frutti di un’ideologia innaffiata da acqua palustre e mortifera. Ancora una volta gli eroi della storia diventano emarginati, zoppi, orfani, dimenticati e addirittura i morti, le vittime e i fantasmi di una guerra sempre ingiusta ed insensata, vincendo attraverso gli occhi della fanciullezza. Del Toro ritrova in “La spina del diavolo” anche il suo omonimo collaboratore Navarro, che contribuisce a mettere in scena questo toccante racconto gotico attraverso un uso magistrale della fotografia, che si carica esteticamente delle aride steppe spagnole per poi sapersi raffreddare al momento più opportuno. Questa sarà la prima toccante collaborazione anche tra Del Toro e il compositore spagnolo Javier Navarrete, le quali suggestive note saranno fondamentali prossimamente. Con il film del 2001, il regista messicano continua ad adornare una capacità dietro la macchina da presa già di per sé elaborata e perfettamente funzionale, soprattutto data ancora la giovane età. A 37 anni la carriera di Del Toro viene ufficialmente lanciata in campo internazionale; tuttavia, anche se poi arrivò anche il successo de “Il labirinto del Fauno”, quella programmata dal regista messicano resta una trilogia storico-antologica incompleta, per la mancanza del suo ultimo capitolo. O forse chissà, quello stesso terzo film potrebbe essere arrivato proprio nel 2022 con “Pinocchio“?

Blade II: per produrre ancora servono fondi e i cinecomics vendono bene

<<Tieniti stretti gli amici…e ancora più stretti i tuoi nemici.>>
Da grande appassionato di vari fumetti, graphic novel e comic-book fin dall’infanzia – che di fatto hanno impreziosito anche la sua passione verso il disegno, bozze e storyboard – fu solo questione di tempo prima che la pulce mostruosa nell’orecchio di Guillermo Del Toro suggerisse anche un’avventura nel mondo dei cosiddetti cinecomics. Nel 2002 infatti, la strada di adattare i personaggi più famosi, tratti dalle case editrici di fumetti più vendute – via che verrà rapidamente spianata, allargata e cementata fino ad oggi soprattutto per Marvel e DC – stava iniziando a prendere fortemente piede. Fin dal “Blade” del 1998 di Stephen Norringhton, i primi anni 2000 al cinema vennero caratterizzati anche dall’inizio della fortunata era cinematografica per la Marvel, con le uscite più illustri di “X-men” di Bryan Singer, “Spider-man” di Sam Raimi e proprio il secondo capitolo del Diurno cacciatore di vampiri diretto da Del Toro. Il regista messicano vuole infatti continuare a proporre il proprio personale cinema, ma per un produttore servono fondi e buttarsi in un’avventura che stava per diventare sempre più redditizia non poteva che essere una buona idea (attendendo il reboot del MCU). La proposta del presidente di New Line Michael De Luca, poi accettata dal regista messicano, fu però sostanzialmente un salto nel buio più totale (“La spina del diavolo” è ancora in lavorazione e il ricordo di Del Toro da “Mimic” non è sicuramente dei migliori nel mondo hollywoodiano) ma, Blade II, riuscì a diventare il maggior successo della trilogia conclusa poi 2 anni dopo con il capitolo del 2004 “Blade: Trinity“.

Questa è stata un’avventura molto particolare per il regista messicano, abituato a lavorare con proprie creature o comunque soggetti al limite della notorietà da poter plasmare a propria immagine e somiglianza. Qui Del Toro doveva approcciarsi ad un personaggio molto conosciuto, soprattutto per i fan del mondo fumettistico, che aveva già avuto la sua origin-story diretta da un altro regista. Il personaggio di Blade, pur non nascendo sicuramente dalla penna di Del Toro (unico film in cui non è in veste di sceneggiatore) e con i “vincoli” del precedente capitolo che comunque indirizzavano la produzione (esteticamente, ma anche e soprattutto per il cast), il regista messicano riesce comunque a fare suo il film del 2002, facendo anche rientrare nella sua squadra il fedele Ron Perlman. Nonostante infatti il campo mainstream e la natura commerciale del prodotto, anche nel film con protagonista Wesley Snipes Del Toro riesce ad infondere la sua poetica d’autore in un “giocattolo” non di sua proprietà. La gotica Praga è la location perfetta per ambientare un’altra storia di vampiri dopo “Cronos”, esaltata però questa volta dall’action, dalle arti marziali e da un certo senso di spiritualismo che smuove i personaggi, con l’idea iniziale del regista messicano di realizzare infatti un prodotto anche vicino al mondo orientale. Il ruolo dell’antieroe protagonista, nel suo essere emarginato e temuto per la sua diversità, non può passare certo inosservato: attraverso il personaggio interpretato dall’afroamericano Wesley Snipes, Del Toro mostra un film che annulla il concetto razziale, il quale è semplicemente un prodotto artificiale di chi detiene e vuole mantenere il potere, che deve essere combattuto nell’estenuante guerra per l’integrazione. Per quanto riguarda il lato tecnico, ovviamente non mancano le palette cromatiche deltoriane, con il rosso del sangue e l’oro ambrato che scaldano le sequenze più mortifere, ma con “Blade II” il regista messicano dà proprio prova diretta di quanto si stia divertendo ad avere a disposizione un importante budget. Rivisto inoltre con il senno del poi, sia per la stesura di determinate sequenze a livello coreografico, sia per la guerra del reietto infernale che per certe dinamiche famigliari, il film del 2002 è semplicemente per Del Toro un lussuoso campo d’addestramento in cui sperimentare le sue tecniche, per poi darne libero sfogo in prossimi capitoli su un certo “Ragazzo infernale”.

HELLBOY: Bello quello! Facciamone un altro…anzi, altri 2

<<Cos’è che fa di un uomo un uomo? Forse le sue origini? Il modo in cui nasce alla vita? Io non credo. Sono le scelte che fa.>>
Con in tasca il successo del secondo capitolo sul Diurno cacciatore di vampiri – triplicando al botteghino la quota stanziata per il budget – a Del Toro venne proposto di dirigere anche il terzo capitolo, poi rifiutato per un progetto molto più personale. Ovviamente interessato ad ampliare le sue conoscenze fumettistiche durante la produzione di “Blade II”, Guillermo Del Toro entra in contatto con un fumettista che collaborerà nelle 2 prossime pellicole del regista messicano: Mike Mignola.
[Qui si decide di proseguire infatti attraverso una “scappatoia”, che spezzerebbe la linea cronologica fino a qui seguita per la trattazione della monografia su Del Toro, in quanto si tratteranno due film – uno del 2004, l’altro del 2008 – che vedono nel mezzo l’uscita di un lungometraggio che meriterà uno spazio autonomo importante, confluendo queste 2 uscite sotto l’unicità del soggetto.]
Fumettista statunitense, Mignola è infatti autore del demoniaco personaggio di Hellboy, creato nel 1993 per la casa editrice Dark Horse Comics, protagonista perfetto per incarnare appieno la filmografia deltoriana, una vera e propria mascotte direttamente dall’Inferno. Nell’omonimo film del 2004 e nel superlativo sequel “Hellboy: The Golden Army” del 2008, Del Toro si diverte a mettere in scena un bambinone divertente e divertito, dal cuore grande ma pur sempre Satana in terra, in perenne ricerca del suo vero posto nel mondo, dalla sua creazione – con l’apertura di un portale demoniaco ad opera dei nazisti con l’aiuto del necromante Rasputin – fino alla sua prossima morte e rinascita. Attraverso grandi budget ed un’azione fantastica e spettacolare, Del Toro riprende i toni drammatici ed intimisti assaporati in “Blade II” – con la lotta anche e soprattutto interiore del suo emarginato protagonista antieroe – ma eleva tutto all’ennesima potenza, puntando molto anche sull’aspetto più ironico e parodistico dei suoi personaggi, attraverso una sceneggiatura (questa sì squisitamente personale del regista messicano) precisa, perfetta e sentita.

Il personaggio di Red (interpretato sempre dal fedele Ron Perlman) è l’antieroe perfetto, un diavolo dalle vesti umane che si diverte ad impersonare vizi di una razza che forse nemmeno gli appartiene fino in fondo: Red è Satana, ma è anche sporco, maleducato, ubriacone, impacciato con la ragazza per cui ha una cotta, ama i gatti e affronta le sue avventure come un ragazzino, non perdendo la sua peculiare magia anche davanti al mostro più spaventoso. Red si sforza di essere umano a tutti i costi, anche se gli altri della sua “nuova razza” lo emarginano a causa della sua diversità: cos’è che fa di un uomo un uomo? Una voce continua a ripetere la domanda per il primo capitolo, ma il concetto viene amplificando nel sensazionale sequel del 2008: in Hellboy: The Golden Army Del Toro decide semplicemente che gli umani si mostrano effettivamente come un impiccio per la narrazione necessaria, che Red deve scoprire la sua natura immergendosi totalmente in un altro mondo fantastico, per contrastare poi la minaccia di un orgoglioso principe intento a risvegliare una leggendaria armata per poter tornare a governare le altre razze. Quello del Principe Nuada (il Luke Goss che interpretava anche la minaccia in “Blade II”) è un villain dal potenziale ammaliante, umanissimo nel suo essere principe elfico di un regno mitologico, mosso orgogliosamente dai propri ideali per una guerra che ritiene giusta per il suo popolo e non per il gusto di essere il semplice villain della storia: spietato, ma anche e soprattutto sofferente e amorevole verso la sorella Principessa Nuala (fondamentale è in tal caso quella “carezza” concessa al padre Re). Davanti ad un personaggio imperiale del genere, Red è quasi intento ad arrendersi alla propria natura di Demone, ma cos’è che fa di un uomo un uomo? Sono le sue scelte, gli affetti che decide di custodire verso i propri cari, la consapevolezza che c’è qualcuno da proteggere e a cui volere bene, un padre, una sorella, un’amante, degli amici: il diavolo Red è umano, così come lo stesso elfo Nuada, è umano l’orco che per bambino ha un tumore, mentre ad essere mostri sono gli umani, razzisti verso la diversità, guerrafondai, avari e nascosti dietro le loro corrotte istituzioni.

Soprattutto con il suo secondo capitolo, il cinema sognato e realizzato attraverso il personaggio di Hellboy rappresenta per Del Toro il film perfetto, cardine per la propria autorialità sempre come punto di congiunzione tra il reale ed il fantastico, tra il cinema hollywoodiano d’intrattenimento di supereroi ed il personale cinema d’autore. Tutto perfetto, se non fosse che quella di “Hellboy” rimane purtroppo una trilogia ancora incompiuta e che, per ovvie ragioni, manca di un tassello fondamentale per chiudere definitivamente il cerchio (l’incontro con la Morte del 2° capitolo merita un seguito a tutti i costi)…e tutto perfetto se non fosse che nel 2006, a metà tra i due film – influenzato dal primo e influenzabile per il secondo – esce anche quello che potrebbe benissimo essere considerato il capolavoro di Guillermo Del Toro.

Il Labirinto del Fauno: Del Toro gigante tra i giganti

<<I bambini si accorgono di certe cose, perché tutto ciò che fanno è osservare, e nascondersi dalle tempeste create dagli adulti. Le tempeste e gli inverni.>>
Dopo una decina di cortometraggi e 5 film all’attivo, sparse tra l’horror e il fantasy, la fantascienza e la storia, Hollywood e il cinema d’autore, come per ogni cineasta che si rispetti era arrivato il momento per Del Toro di fare i conti anche con i più grandi palcoscenici internazionali. Il regista messicano, nel 2006 passa definitivamente alla storia (del cinema) attraverso la storia, partendo dalla presentazione e alla candidatura per la Palma d’Oro alla 59° edizione del Festival di Cannes, fino alla vittoria di 3 Premi Oscar, per quello che potrebbe essere considerato – al momento – il capolavoro dell’intera filmografia deltoriana: “Il labirinto del Fauno”. Quasi quintuplicando al botteghino la quota stanziata per il budget, la 6a pellicola del regista messicano ha ottenuto un consenso di pubblico e di critica pressoché unanime, arrivando infatti ad aggiudicarsi anche quasi 100 premi in Festival e cerimonie di premiazione in tutto il mondo. Il secondo capitolo di quella che doveva essere la trilogia spirituale di Del Toro, deve il suo successo per il fatto di rappresentare, il più possibile, il manifesto poetico ed estetico dell’intera filmografia del regista messicano. La fiaba di Ofelia che, oppressa dallo spietato patrigno Vidal – capitano delle forze franchiste, determinato a sconfiggere tutta la Resistenza nella Guerra Civile – si imbatte, come per una moderna e spagnola “Alice in Wonderland”, in un mondo magico popolato da creature fantastiche. Un ponte, quello che collega il mondo reale della guerra a quello fatato della magia, a dir poco evanescente, pericolante e poco solido, per una realtà che racchiude a sé gli orrori e i sogni di entrambi i mondi.

Riempiendo “Il labirinto del fauno” di un marcato simbolismo, Del Toro straborda tutto il suo genio creativo attraverso la sua poetica: così non mancano stoccate al veleno verso il mondo cattolico, prossimo alla corruzione del fascismo, anch’esso ridicolizzato attraverso le virili invenzioni della scienza già adocchiate in “La spina del diavolo”; uomini e mostri, che a vicenda si umanizzano e si mostrificano; orrore e tanta tenerezza, con un deciso dualismo rappresentato in scena dalla scenografia e soprattutto dalla fotografia sempre di Guillermo Navarro, entrambi aspetti premiati agli Oscar. Il regista messicano e il direttore della fotografia decidono di monopolizzare il processo creativo del film privilegiando la composizione delle immagini rispetto ai dialoghi: i toni cupi ed orrorifici di un grigio argentato e mortifere gradazioni bluastresi sfumano calorosamente con tonalità dorate, una luminosità calda ed accogliente con rari – ma importanti – momenti di gioia. Il terzo Oscar tecnico andrà inoltre al trucco, con un lavoro incredibilmente efficace su e di Doug Jones che resta sempre a collaborare con Del Toro dopo “Mimic” e “Hellboy” del 2004, non limitandosi qui ad impersonare l’ambiguo personaggio del Fauno, ma dedicando anche anima e corpo per le movenze del terrificante Uomo Pallido.

Il capolavoro del 2006 è il trampolino definitivo per la filmografia di Del Toro raccogliendo, dopo i vari esperimenti nelle produzioni a piccolo o alto budget, tutta la sua poetica e il suo cuore all’interno della stessa pellicola: il feticismo verso i mostri e le creature fantastiche si tramuta nell’ambiguo rapporto/conflitto tra mostro ed essere umano; un fascismo che deve essere denunciato e sconfitto, anche attraverso gli occhi della fanciullezza; forti stoccate alle istituzioni religiose e alle mortifere manipolazioni scientifiche. Un anima completamente indipendente e personale che si rispecchia nella suggestiva e riconoscibile messa in scena, supportata dal suo stretto collaboratore Navarro e con una colonna sonora struggente e seducente di Javier Navarrete. La summa del cinema di Del Toro è forse stata così raggiunta e, per mantenere un necessario appiglio mediatico, critico e commerciale, serviva che il successivo lavoro fosse altrettanto risonante, cosa che effettivamente avvenne con “Hellboy: The Golden Army” del 2008. Del Toro ha ufficialmente superato tutte le prove: si è cimentato con il cinema indipendente, con quello commerciale ad alto budget e ha portato la sua autorialità ad alte vette commerciali, ora si può finalmente rilassare divertendosi con ciò che più gli aggrada, anche se non ha mai veramente smesso di farlo. La prossima via sarà quella spassionata degli omaggi, verso la letteratura e il cinema soprattutto della metà del ‘900, con un piccolo grande sogno portato fin dalla tenera età che continuerà “follemente” a sfumare ed un altro che andrà invece a concretizzarsi.