Articolo pubblicato il 16 Dicembre 2022 da Bruno Santini
Usciva nel 2002, nelle sale dei paesi nei quali non fu stroncato dalla censura, “Irreversible”, il film forse più divisivo del regista argentino Gaspar Noé, con protagonisti Monica Bellucci e Vincent Cassel. L’opera fu presentata in concorso alla 55esima edizione del Festival del cinema di Cannes. A distanza di vent’anni ciò che ci si può chiedere, in relazione a questa pellicola che fece scalpore, è se essa sia ancora un tentativo di provocazione ben riuscito o se l’intero film non sia altro che uno specchietto per le allodole con la sola funzione di mascherare la vacuità di fondo. Di seguito viene presentata, dunque, la trama e la recensione di Irreversibile, oltre che un’analisi a proposito del tema della spettacolarizzazione della violenza.
La trama di Irriversible di Gaspar Noé
Al fine di offrire un’analisi a proposito di Irreversible di Gaspar Noé, in primo luogo si vuole indicare la trama del prodotto del regista argentino. Il film è ambientato nel corso di due giorni e ruota intorno alla storia di una giovane donna, che viene violentata in un tunnel della metropolitana, del suo fidanzato e dell’ex marito che si mettono alla ricerca del colpevole per vendicare l’ingiustizia subita dalla donna.

Il genere rape and revenge
Per riuscire a inquadrare meglio l’analisi di Irreversible di Gaspar Noé, vale la pena introdurre dapprima il genere del rape and revenge, da cui il prodotto attinge i suoi caratteri. Capita che l’arte possa invecchiare. Non c’è nulla di sacrilego nell’affermarlo, non tutte le opere sopravvivono allo spietato giudizio del tempo. Tuttavia capita che alcune, già profondamente fallaci in partenza, vedano il proprio apparato estetico e teorico completamente martoriato dall’implacabile passare degli anni. Nell’ultimo decennio la figura della donna e la sua centralità all’interno del mondo dello spettacolo sono state profondamente ridiscusse (fortunatamente per chi scrive) e sempre più spesso si fa riferimento a come si dovrebbe rappresentare accadimenti traumatici afferenti alla sfera femminile.
Il film di Noè si ascrive a pieno titolo alla categoria di film denominata “rape and revenge”, ossia quelle opere nelle quali una donna viene violentata e successivamente ella stessa (o qualcun altro in sua vece) cerca vendetta, il più delle volte finendo per uccidere gli aggressori. La letteratura relativa a questo genere di pellicole, che esistono fino dagli anni 70, è aumentata nel tempo, finendo per mettere in evidenza un fattore cruciale: nella maggior parte dei casi a compiere la vendetta non era la vittima della violenza ma molto spesso il suo ragazzo/marito o suo padre, perpetrando dunque una visione che vedrebbe la donna come oggetto e mai soggetto della narrazione. Questo è chiaramente dovuto al fatto che i team creativi dietro a queste opere erano spesso composti per la larga maggioranza da uomini che trovavano più naturale esprimere il senso di impotenza e successiva furia di un personaggio maschile, piuttosto che la complessità di sentimenti ed emozioni che attraversa la mente di uno femminile dopo un evento del genere.
Questo certamente non significa che vi siano un modo corretto e uno errato di trattare il tema dello stupro, tant’è che anche film appartenenti a epoche cinematograficamente lontane da questa hanno saputo esprimere con compiutezza punti di vista interessanti al riguardo. Basti pensare a “La fontana della vergine” (1960) di Ingmar Bergman, film considerato antesignano del filone “rape and revenge”, che costruiva attorno al fatto traumatico una meravigliosa metafora di stampo biblico, o “Cani di paglia” (1971) di Sam Peckinpah che addirittura metteva in scena (almeno nella parte iniziale dell’atto) un rapporto nel quale distinguere chiaramente il limite tra prevaricazione e consensualità non era affatto semplice. “Irreversible” appartiene dunque a quella pletora di film che hanno saputo mantenere il loro valore inalterato nel tempo?

Irreversible e la spettacolarizzazione della violenza
“Irreversible”, a parere di chi scrive questo articolo, è un film moralmente disdicevole sotto diversi aspetti e interessato a null’altro se non alla spettacolarizzazione della violenza o alla pornografia del dolore. Il film di Noé mortifica e sfrutta in modo piuttosto bieco la celeberrima scena dello stupro del personaggio interpretato da Monica Bellucci sia narrativamente che esteticamente. La storia infatti è narrata al contrario e, fino al momento appena antecedente alla violenza sessuale, viene celato il motivo per il quale il personaggio interpretato da Vincent Cassel è in preda a un tale accesso di ira.
Ebbene ciò che ne risulta è che il regista si avvale della violenza sessuale perpetrata nei confronti della protagonista per poi sbarazzarsi (narrativamente parlando) di quest’ultima una volta che il fatto è compiuto. Noé non è interessato a mostrare la reazione del personaggio a seguito dell’accaduto: il suo trauma, il suo risveglio sul letto d’ospedale, la sua presa di coscienza dell’accaduto, perché il regista argentino non esprime la benché minima empatia nei confronti dei suoi personaggi all’interno di una storia che invece richiederebbe estremo tatto e sensibilità. Ciò che invece viene ritenuto più efficace da mostrare è la sequela di insulti di stampo razzista, misogino, transfobico e omofobico del protagonista nei confronti di qualsiasi individuo gli si pari davanti, il tutto condito da una dose parossistica di violenza.
Da un punto di vista estetico o formale la scena in questione risulta altrettanto problematica, infatti la freddezza che Noé dimostra nei confronti di ciò che accade alla sua protagonista è disarmante. In un film nel quale la camera compie incessantemente movimenti barocchi e l’audio è montato in modo tale da disturbare l’apparato uditivo dello spettatore, l’unica scena nella quale non sono effettuati tagli di montaggio è quella dello stupro. La scelta di racchiudere questo segmento narrativo in un solo piano sequenza è l’estrema conferma di quanto il regista sia interessato solo e unicamente allo shock value di quello che propone. A che fine, se non per la spettacolarizzazione del dolore, si crea una sequenza del genere? Le vittime di stupro troveranno conforto o proveranno un senso di catarsi osservando una scena di questa fatta? Questa morbosità nel rimestare nel torbido e nel proporre in modo così accurato la sopraffazione di una protagonista, che nella scena successiva viene espulsa dall’opera, dovrebbe portare a quali conseguenze?

“Irreversible”: un fallimento su tutta la linea
Senza contare poi come la scena sopracitata sia solo la punta dell’iceberg di un’opera dall’insulso, malcalibrato e pretestuoso impianto barocco che non si preoccupa di spiegare i motivi per i quali i protagonisti formano una coppia, laddove presentano differenze caratteriali così marcate, o meglio tentando di farlo piazzando alla fine del film una didascalica e artificiosa scena di intimità a letto, di fronte alla quale il Godard di “Fino all’ultimo respiro” rabbrividirebbe e che è soltanto l’ennesima dimostrazione di come il regista argentino non sia minimamente interessato alla costruzione drammaturgica dei suoi personaggi ma solo a dare seguito alle sue sconnesse e peregrine idee volte a scioccare lo spettatore.
Questo film privo di qualsiasi tipo di raccordo narrativo (e che a tratti sembra davvero la versione parodistica di “Jules e Jim”) inoltre fa affermare alla propria protagonista, nel corso di una brutta scena in un vagone della metropolitana, come essa non si consideri un oggetto ma anzi abbia la propria indipendenza e autonomia, per poi relegarla al ruolo di puro pretesto narrativo per il resto della pellicola.