Recensione – Beau ha paura, il nuovo film di Ari Aster con Joaquin Phoenix

Recensione - Beau ha paura, il nuovo film di Ari Aster con Joaquin Phoenix

Articolo pubblicato il 5 Maggio 2023 da Bruno Santini

Nelle sale cinematografiche a partire dal 27 aprile 2023, Beau ha paura è il terzo film di Ari Aster che, forte del successo ottenuto con Hereditary – Le radici del male e Midsommar – Il villaggio dei dannati, torna al cinema con un luogo lungometraggio dalla durata di 2 ore e 59 minuti; simbolo fondamentale della pellicola è l’interpretazione, nei panni del protagonista, di un Joaquin Phoenix per cui c’è già una necessaria attenzione a proposito della prossima stagione dei premi cinematografici. Film altamente divisivo, in grado di generare tanto giudizi negativi quanto addetti ai lavori (tra cui Martin Scorsese) in grado di gridare al capolavoro, si vuole approfondire la trama e la recensione di Beau ha paura, guardando anche alla sua possibile – con un’ipotesi di sguardo in flash-forward – simbologia e impronta futura. 

La trama di Beau ha paura, il terzo film di Ari Aster 

In un processo di scomposizione strutturale che viene costantemente posto in essere all’interno del film, Beau ha paura rende difficile parlare della sua stessa trama, che viene qui proposta per mezzo di una qualche (necessaria) semplificazione; l’invito, naturalmente, è quello di andare oltre il mero resoconto di fatti presentati all’interno del terzo film di Ari Aster che, per sua natura, vuole essere tutt’altro rispetto che una spiegazione di se stesso. 

 

Beau Wasserman (Joaquin Phoenix) è un uomo paranoico che vive in un non precisato quartiere di New York, che ha frequenti contatti con il suo terapista per il suo costante stato di ansia e che si trova in procinto di raggiungere sua madre, nell’anniversario della morte di suo padre. A causa del furto delle chiavi del suo appartamento, che non gli permette di trovarsi più al sicuro nel luogo in cui vive, Beau vede la sua casa occupata da diversi uomini del quartiere; dopo aver scoperto della morte di sua madre, l’uomo scappa ma viene investito. Dopo due giorni, si ritrova in una casa per cui, anche in questo caso, si ignora la posizione: ad abitarla è una perfetta coppia borghese, che ha perso il suo primo figlio in guerra e che vede la seconda figlia ribellarsi a quello che sembra essere un apparentemente perfetto ordine familiare. 

 

Beau cerca in tutti i modi di raggiungere la residenza di sua madre per far sì che avvengano i funerali e venga seppellita, ma nell’ambito della sua costante fuga si ritrova protagonista in una surreale rappresentazione teatrale itinerante, che ogni giorno si svolge in un bosco differente. Qui, ripercorre la sua vita fino all’esatto momento in cui si trova, per poi scappare ancora una volta a causa di un attacco potenzialmente omicida. Dopo aver raggiunto la casa di sua madre ritrova Elaine, ragazza che aveva conosciuto in una sua vacanza passata e che, per la prima volta, aveva provocato in lui il desiderio di ribellarsi al controllo materno: ciò che c’è a seguito del loro incontro conduce verso il delirante finale del film. 

La recensione di Beau ha paura: Ari Aster tra David Lynch e Charlie Kaufman

«Silenzio». È con questa parola che termina Mulholland Drive, capolavoro di David Lynch nonché riferimento costante nella proposta di cinematografia di terzo millennio: un silenzio che avviene a seguito della riproposizione, su più livelli, della vita mostrata all’interno del film. Un necessario stato di fermo, che l’onirismo lynchiano propone dopo aver stremato il suo spettatore, costantemente capace di mettere in discussione la sua verità, per mezzo di quel gioco perverso che viene condotto dall’immagine sullo schermo. Quando si giunge al termine di Beau ha paura, si ha inevitabilmente bisogno dello stesso silenzio, colti da quella medesima stanchezza, che sa di vissuto, ma che in questo caso conduce inevitabilmente ad una riflessione altra: Ari Aster propone il suo terzo film inserendo ogni possibile elemento cardine del suo processo creativo, oltrepassando (o frantumando, per proporre una metafora sensoriale sicuramente più percepibile dalla visione del film) ogni barriera e rifuggendo quelle naturali regole strutturali su cui il cinema, come arte, si fonda. Ma che cos’è, del resto, un processo creativo senza controllo? In una sola parola: delirio

 

Beau ha paura è un film che vuole superare il concetto stesso dell’essere film, che si fonda su due riferimenti costanti (David Lynch e Charlie Kaufman) e che porta avanti una narrativa che non gode delle proprietà della narrazione, infrangendo scena dopo scena quel patto che si instaura tra autore e spettatore, proponendo un modello di linguaggio assolutamente estraneo ad ogni logica. Procedendo con ordine: Beau ha paura parla di un uomo nevrotico che vive la sua stessa esistenza dominato dalla paranoia; ma di cosa ha davvero paura? Potenzialmente, di tutto: è il risultato di una vita che agisce con costante pressione sulla sua personalità, schiacciandola così tanto fino a generare quello che Goya indicava, nel titolo di una sua opera, come “sonno della ragione”. Beau Wasserman è un uomo totalmente schiacciato dal senso di colpa che sua madre, rivelandogli il segreto relativo alla sua nascita, gli ha inferto: la morte di suo padre, di cui si sente inevitabilmente colpevole essendo in vita. 

 

 

C’è un di più: il rapporto morboso, edipico, che viene messo in scena tra la madre e il figlio sono alla base della precisa condotta morale che Beau stabilisce nella sua esistenza; per questo motivo, l’atto sessuale è potenzialmente letale, le caramelle potrebbero contenere il cancro, assumere uno psicofarmaco senz’acqua potrebbe provocare la morte. Senso di colpa ed omicidio del proprio padre, un binomio ideale nella letteratura freudiana, che conducono inevitabilmente alla paranoia: l’uomo interpretato da Joaquin Phoenix è protagonista di un viaggio odisseico, a cui viene troncato il finale; l’Itaca omerica è sostituita dalla residenza della morta/non morta madre di Beau, un Monte Fato (è il Signore degli Anelli, ma ebraico, ha sentenziato Ari Aster a proposito del film) verso cui l’uomo tende pur consapevole della propria mancata salvezza. Il ritorno a casa, quella casa che Beau aveva abbandonato con un programmato e costantemente controllato (le influenze di The Truman Show appaiono ben evidenti) atto di ribellione da parte del protagonista. La New York che circonda l’azione di Beau è in costante disgregazione, pur essendo senza tempo, in un non-spazio: è qui evidente il richiamo a Synecdoche, New York di Charlie Kaufman, che costruisce la rappresentazione di una città morente ma che viene salvata soltanto dalla sua rappresentazione teatrale; quando Caden Cotard, il regista dell’opera, non riesce più ad essere in grado di gestire quel mondo che ha creato minuziosamente per tutta la sua vita, ecco che il male si insinua, disgregando, uccidendo, lacerando lo stesso protagonista della sua opera, che muore (o forse è già morto). Beau ha paura è un film che offre la morte come primo elemento, ma che nonostante ciò cerca di nutrirsi della vita dello spettatore: spiazza, cambia strada, cerca una nuova chiave di volta, non segue mai pedissequamente il suo filone, diventando per questo motivo stucchevole

 

 

La Disappointed Boulevard (il titolo del film inizialmente previsto da Ari Aster) che il protagonista conduce non è un disgregarsi costante e imperituro, quanto più un offrire versioni differenti della stessa morte: ecco allora il viaggio che conduce all’esatto stesso in cui Beau si trova sulla scena; ecco la rappresentazione della coppia borghese, in un atteggiamento di segregazione alla Misery non deve morire che rende il protagonista del film orfano di due persone che neanche conosce; ecco Beau, in ultima analisi, essere sempre figlio: di sua madre, del ricordo/sogno che ha di quella, della coppia, addirittura della donna che per la propria volta lo guida fino alla perdita della sua verginità, per poi morire. Se Synecdoche, New York di Charlie Kaufman intendeva rappresentare quel complesso paradosso di confusione esistenziale che governa la mente di ogni uomo, Beau ha paura restituisce l’idea di voler mostrare soltanto il caos: il vero problema del film, che pur muove da elementi notevoli, è perdere contatto con le sue radici, figlio di un’idea che viene condotta verso la sua estremizzazione, conseguenza di un’esagerazione costante che si risolve in onanismo (il mostro nascosto nel soffitto della casa di Beau è un gigantesco fallo) accentuato da parte di Ari Aster; un regista sì estremamente qualitativo, ma che appartiene alla stessa schiera di quegli autori che maturano il bisogno eccentrico di dimostrare la propria intelligenza, sacrificando ogni necessità creativa

Un film fagocitato da Joaquin Phoenix

L’elemento più notevole di Beau ha paura è sicuramente l’interpretazione, nei panni del protagonista, di Joaquin Phoenix. In I’m Still Here, del 2010, l’attore si lasciava andare al ruolo più complicato della sua carriera, con la regia di un Casey Affleck che guida Phoenix in un delirante (e falso) atteggiamento di smarrimento da parte dell’attore, fino al totale abbandono dal mondo del cinema. Un’interpretazione, elogiata dalla critica, che fu fatta proseguire da una altrettanto memorabile presenza in The Master, di Paul Thomas Anderson, in cui l’attore fu in grado di incarnare ancora già a fondo quei medesimi elementi di dissoluzione, che tentano – in ultima analisi – di essere ripresi anche all’interno di questo film. È, giustamente, un Joaquin Phoenix per cui è già necessario parlare a proposito della prossima stagione a premi, quello che veste i panni di Beau all’interno dell’opera: un attore che sa assumere il peso completo del poema di Ari Aster, che presta il volto ad un personaggio paradossale, quasi impossibile da interpretare. Eppure, il più grande pregio del lungometraggio rappresenta, contestualmente, anche il suo limite più importante: Beau ha paura è un film totalmente fagocitato da Joaquin Phoenix, che appare totalmente cucito per un’interpretazione di tale livello e che tenta, per mezzo di ogni elemento tecnico, di esaltarne l’importanza. 

 

 

Un lungometraggio che tenta di dimostrare costantemente la portata cognitiva del suo regista: da David Lynch e Charlie Kaufman, i cui riferimenti sono stati già precedentemente esplicitati, fino al materiale di cui si fa abbondante menzione (da Kafka a Omero, passando naturalmente per la letteratura freudiana), passando per la ripresa di quegli stilemi che erano stati oggetto di rappresentazione in The Truman Show e Under The Silver Lake. È emblematico, a proposito di quest’ultimo, un passaggio del film in cui Andrew Garfield recita nei panni del protagonista: in una società dominata dagli stimoli e che non riesce più a fare a meno di quel sottofondo sonoro che contestualizza ogni propria esistenza, anche durante l’atto sessuale o la masturbazione ci si distrae guardando la TV, interrogandosi a proposito di un autografo di Kurt Cobain. La realtà rappresentata da Ari Aster va anche oltre: è già totalmente sfasciata, sovra-stimolata e offre, attraverso la simbolica immagine di Beau, il perfetto risultato di un mondo che non va più oltre la sua rappresentazione, che produce consumo e che annienta costantemente.

 

 

Ne deriva un’opera che non può fare a meno di Joaquin Phoenix, esaltato dalla fotografia di Paweł Pogorzelski (già impegnato con Hereditary e Midsommar, oltre che con i cortometraggi del regista), attenta ancora una volta ad accecare lo spettatore in numerosi passaggi del film, evidenziando – anche per mezzo del ricorso a colori caldi – la figura del protagonista nel suo divenire in sogno. Un’opera che ha bisogno del suo attore più di quanto l’attore, che un ruolo del genere ha già saputo portarlo a termine, abbia bisogno dell’opera; pregio da un lato e limite dall’altro: “Non accetterò nient’altro se non la brutale verità”, diceva il Cotard interpretato da Philip Seymour Hoffman di Synecdoche, New York, in un processo di messa in discussione della verità costante, che porta l’uomo ad essere interpretato dall’attore e l’attore ad essere interpretato dall’uomo. Purtroppo, Beau ha paura è un film che rinuncia totalmente a mostrare la verità, preda di un delirio frenetico che si risolve in disconnessione e che, se mancasse del suo cardine fondamentale (Joaquin Phoenix), avrebbe ben poco senso di esistere. 

Il cinema della pretesa: Beau ha paura come marchio del postmoderno

Un termine che si legge spesso, a seguito di alcune visioni come quella di Beau ha paura, è “divisivo”. Un film divisivo è un film netto, per cui è difficile mostrare atteggiamenti che siano intermedi e che ha, come conseguenza, la netta contrapposizione tra le sue analisi: è facile gridare al capolavoro, ed è successo anche tra addetti ai lavori illustri come Martin Scorsese, così come è facile stroncare totalmente ciò che si è visto. Per certi versi, non c’è neanche bisogno di compiere quello stesso viaggio infernale che Beau compie all’interno del film; il terzo film di Ari Aster appartiene a quella categoria di prodotti per cui si è soliti credere, soprattutto a causa di un’estetica indiscutibile e di un lavoro tecnico che sarebbe difficile contestare, che la complessità sia sinonimo di qualità. La storia del cinema ha seguito, costantemente, un processo di liberazione dall’impurità, alimentando una sempre più marcata riflessione sullo sguardo che proponesse macchine della verità (o meglio, macchine in grado di cogliere la verità) da un lato, fotogrammi di una realtà incorniciata dall’altro. 


Cosa succede, quando si osserva un film come Beau ha paura? Quella che, in poche parole, potrebbe essere definita come l’estrema conseguenza dell’aver introiettato l’impuro, rendendolo – anzi – elemento cardine della propria creazione creativa. Definirlo difetto è una scelta che spetta allo spettatore: Beau ha paura è un film per cui si può comprendere tanto l’esaltazione quanto lo stroncatura, sulla base della propria considerazione dell’impurità, della messa in discussione di quest’ultima sullo schermo. Certo è che ci si ritrova, necessariamente, a ripetere quanto già espresso con Babylon di Damien Chazelle: due registi giovani (38 anni Chazelle, 37 Ari Aster) maturano il bisogno intrinseco di esaltare formalmente, esteticamente, narrativamente la propria opera, portando avanti la concretizzazione di questa necessità per mezzo di forme distorte e sulla base di un atteggiamento pretenzioso. Lo spettatore in sala, con Babylon e con Beau ha paura, osserva nient’altro che un concetto deforme (o meglio, a cui alla forma non si pensa), che viene mostrato per mezzo della sua esasperazione. 


Un marchio del postmoderno, insomma, che coniuga forme e riferimenti, rendendo la citazione una materia viva a cui attingere, comunicando visceralmente per mezzo di immagini sovrabbondanti, ma necessarie: ecco che, allora, il giudizio universale è come ce lo si aspetta nella narrazione biblica, pieno d’acqua e con una schiera di figure (angeli?) silenti e osservanti; così, il viaggio odissiaco del protagonista viene condotto effettivamente in una barca, mentre la discesa negli inferi si accompagna al tono cupo del lungometraggio. Nell’osservare una tendenza così tanto marcata e protagonista del nostro tempo, vien da chiedersi se il futuro riserberà quella stessa rivalutazione di opere che hanno diviso anche in passato (Pauline Kael definì 2001: Odissea nello spazio “trash mascherato come arte”). Per utilizzare le parole di Napoleone – un personaggio che Joaquin Phoenix interpreterà grazie alla regia di Ridley Scott -, allora, non resta che offrire ai posteri l’ardua sentenza. 

Voto:
2/5
Andrea Barone
3/5
Andrea Boggione
0/5
Christian D'Avanzo
2/5
Gabriele Maccauro
2/5
Alessio Minorenti
2/5
Sarah D'Amora
3.5/5
Riccardo Marchese
5/5
Vittorio Pigini
5/5
0,0
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