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Recensione – La quattordicesima domenica del tempo ordinario, il nuovo film di Pupi Avanti con Lodo Guenzi

Recensione - La quattordicesima domenica del tempo ordinario, il nuovo film di Pupi Avanti con Lodo Guenzi

Uscito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 4 maggio 2023, La quattordicesima domenica del tempo ordinario è un nuovo film di Pupi Avati, che torna alla regia di un nuovo prodotto dopo il tanto discusso e divisivo Dante. Forte della presenza di Lodo Guenzi nei panni del protagonista, il film rappresenta un prodotto estremamente intimo per il regista che, servendosi del senso della nostalgia, offre un prodotto intriso di ricordi. Ma quale sarà stato il risultato? Di seguito, la trama e la recensione di La quattordicesima domenica del tempo ordinario. 

La trama di La quattordicesima domenica del tempo ordinario, con Lodo Guenzi

Marzio Barreca (Lodo Guenzi da giovane, Gabriele Lavia da adulto) è un uomo che, nel corso della sua vita, ha vissuto costantemente alla ricerca di un successo nel mondo della musica, senza mai riuscire a ottenere il tanto ambito riconoscimento da parte del pubblico italiano. Insieme a Sandro Nascetti (Nick Russo da giovane, Massimo Lopez da adulto) fonda la band I Leggenda, che non riesce mai a decollare nel mondo della musica. 

 

Attraverso un insieme di ricordi, Marzio rivive la sua vita: dal momento in cui ha conosciuto Sandro fino alla formazione della band, passando per l’ennesimo rifiuto del Festival di Sanremo che porta il duo a sciogliersi, con Sandro che decide di intraprendere la carriera bancaria e Marzio che, pur di sopravvivere nel mondo della musica, accetta anche piccoli incarichi e presenze nella televisione locale. Filo conduttore delle storie è Sandra Rubin (Camilla Ciraolo da giovane, Edwige Fenech da adulta), la donna più bella di Bologna per Marzio, con cui l’uomo intraprende una storia piena di alti e bassi. Quando Sandro, dopo aver perso suo figlio per un linfoma, si suicida, Marzio rivede Sandra dopo diversi anni e ciò gli dà la possibilità di rivivere parte della sua storia. 

La recensione di La quattordicesima domenica del tempo ordinario, di Pupi Avanti

Che cosa c’è dopo la presa consapevolezza della vecchiaia? Probabilmente questo film: La quattordicesima domenica del tempo ordinario si inserisce in quel filone autobiografico che la storia cinematografica contemporanea porta avanti attraverso un insieme di titoli che, nel contesto italiano e internazionale, cercano di seguire la cornice comune del raccontare se stessi, pur in assenza di una vita perfettamente traslata sullo schermo. Di recente, Nanni Moretti era riuscito a superare lo schermo della sua vecchiaia per mezzo di Il sol dell’avvenire, lasciando un ideale testamento artistico della sua carriera in un prodotto non soltanto intriso di citazioni, ma anche di un senso etico che gli ha permesso di superare quel confine, intellettivo e cognitivo, che aveva sempre e volontariamente stabilito nell’ambito della sua carriera. Con Marco Bellocchio, invece, si osserva una tendenza diametralmente opposta da parte di un regista che tende a ringiovanire artisticamente film dopo film, avendo stabilito – negli ultimi anni – un confronto con la biografia che gli ha permesso di creare dei lavori eccezionali. 

 

 

Pupi Avati è nel mezzo tra due autori (e due tendenze cinematografiche) con un’opera che appare in costante bilico tra la vecchiaia – inconsapevole e da cui non riesce mai davvero a distaccarsi – e la nostalgia, il cui peso specifico nel film non riesce ad essere identificato in quanto elemento positivo. Benché si tratti di un racconto intimo, la cui genesi appare ben chiara attraverso quel sentimentalismo accentuato di cui La quattordicesima domenica del tempo ordinario si arricchisce, dismettendo il senso pungente della commedia, il film di Pupi Avati sembra essere oggetto del disinteresse da parte del suo stesso autore, che si concentra su altro: parlare, inevitabilmente, di se stesso, neanche troppo cercando di celare la sua figura dietro quella dei personaggi. Un egocentrismo così tanto palese incontra, tragicamente, gli orrori visivi che saltano all’occhio e che rendono la visione una vera e propria impresa da portare a termine, a partire dai green screen e dai cartonati che si stagliano sullo sfondo e su cui si appiccicano, orribilmente, le figure, fino a giungere alle costanti imperfezioni visive e ritmiche di un film che prosegue con costante velocità e disequilibrio.

 

 

Film che sembra essere paradossalmente studiato per la messa in onda su rete televisiva – dati i sovrabbondanti stacchi di un montaggio pessimo -, La quattordicesima domenica del tempo ordinario sembra davvero lontano dall’essere un film, ancora rintanato nel suo stato embrionale di “bozza”. Difficile dire diversamente anche delle interpretazioni, a partire da quella di un Lodo Guenzi che dovrebbe rappresentare l’essere stralunato estraneo rispetto alle dinamiche del boom economico (ma che risolve in un insieme di espressioni facciali banalissime il suo operato), fino a interessare quelle di tutti gli altri attori presenti all’interno del film. Unico spazio che merita una maggiore attenzione è quello dedicato a Massimo Lopez, il cui personaggio, colto dalla distruzione e lucido nella scelta cadenzata del suo suicidio, ottiene uno spazio ridotto a pochissimi minuti. 

Romanticizzazione dell’orrore

Tra le pessime istante di La quattordicesima domenica del corso ordinario c’è anche la romanticizzazione della violenza che porta Marzio, sia giovane che anziano, a essere mostrato in preda alla sua gelosia, addirittura tradendo sua moglie per riuscire a risolvere quei problemi (quasi si avvertono i sentori di Natale sul Nilo) che lo governano in uno stato di costante violenza, mossa nei confronti di sua moglie e altre persone. Lo sguardo della macchina da presa, di Pupi Avati, è indulgente pur nei momenti in cui Marzo viene ritenuto “pazzo” e “squallido” da chi gli è vicino, come in preda ad una volontà di dimostrare il fascino di quella disillusione e quella disgregazione sociale sintomatica di un dopoguerra che affannosamente tenta di essere rappresentato. Il risultato, in assenza di qualsivoglia forma di approfondimento, è terribile non soltanto nella resa estetica di alcune scene (quella finale è il simbolo di un leitmotiv sgradevole), quanto più anche dal punto di vista morale. 

 

 

La medesima romanticizzazione, va purtroppo sottolineato, si osserva anche nella valutazione che viene offerta nei confronti di quest’opera da parte di chi, nonostante tutto, ha cercato di intravvedere una genialità appartenente a Pupi Avati. Genialità, pensiero o ideologia che, se fossero soltanto elementi da raccontarsi a priori, indipendentemente dal risultato di un film, farebbero parlare molto meno di cinema e molto più di belle idee. È, o meglio può essere, una bella idea quella che La quattordicesima domenica del tempo ordinario mostra: eppure, nella messa in discussione di quest’ultima si osservano orrori estetici, disinteresse tecnico, direzione assente degli attori, problemi etici, dialoghi pessimi, patriottismo identitario vetusto (in una scena si suona addirittura l’Inno d’Italia), scavalcamenti di campo e, infine, un uso infantile del turpiloquio. Un prodotto completamente vecchio e profondamente sbagliato, dunque, a cui certo non basta la nostalgia. Nel 2023, in un’epoca in cui la fruizione dei contenuti è spasmodicamente più elevata rispetto al passato, non è davvero più possibile osservare un’opera esteticamente e tecnicamente menzognera rispetto al formato verso cui è destinata. Non è tollerabile, in più semplici parole, osservare un film che non è per il cinema, ma che sembra un ibrido tra prodotto per la televisione locale e un enorme videoclip sponsor dell’ideologia di un autore.

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