Recensione – Bronson, il film di Nicolas Winding Refn con protagonista Tom Hardy

Nicolas Winding Refn alza l’asticella e realizza Bronson, con Tom Hardy. Ma sarà riuscito a raggiungere il proprio obiettivo?
Bronson, un film di Nicolas Winding Refn

Articolo pubblicato il 4 Gennaio 2024 da Gabriele Maccauro

Nuovo appuntamento con la retrospettiva su Nicolas Winding Refn. Dopo aver discusso e chiuso la prima fase della sua carriera – trattando Pusher, Bleeder, Fear X, Pusher II: Sangue sulle mie Mani e Pusher 3: L’angelo della Morte – è arrivato il momento di parlare del sesto film del regista danese con protagonista Tom Hardy. Di seguito infatti, ecco trama e recensione di Bronson.

La trama di Bronson, il sesto film di Nicolas Winding Refn con protagonista Tom Hardy

Nonostante non si tratti di una trama complessa, quella di Bronson è una storia tutt’altro che lineare e che, per la prima volta nella carriera di Nicolas Winding Refn, ci parla di un personaggio realmente esistito ed ancora oggi in vita, ovvero Michael Gordon Peterson. Bronson è infatti un biopic su Peterson, meglio noto come Charles Bronson, uomo che ha trascorso la maggioranza della sua vita in carcere e ben 30 anni in isolamento, un uomo egocentrico e pericoloso ma, allo stesso tempo, con una vena artistica, fattore che ha certamente attirato l’attenzione di Refn e che lo ha spinto a realizzare questo film. Nel ruolo del protagonista troviamo Tom Hardy, che ai tempi non era ancora il grande ed affermato attore che conosciamo e che qui regala una delle  migliori interpretazioni dell’intera carriera.

Bronson, un film di Nicolas Winding Refn

La recensione di Bronson, un Biopic fuori dagli schemi

Dopo essere tornato alla ribalta con la conclusione della trilogia di Pusher, Nicolas Winding Refn viene spinto da Rupert Preston – suo amico e distributore dei suoi film nel Regno Unito – a dirigere un nuovo film: Bronson. Esiste già una sceneggiatura, non si può girare in una vera prigione ed il budget raggiunge malapena il milione di dollari. Refn non sa nulla di Michael Gordon Peterson, meglio noto come Charles Bronson – che prende il nome dal celebre attore di C’era una volta il West ed Il Giustiziere della Notte – ma, forse proprio proprio per questo, ne riscrive la sceneggiatura ed analizza il personaggio da esterno, cercando di mettere in luce gli aspetti di Preston che più si rifanno alla sua idea di cinema, finendo per parlare di un personaggio che sembra perfettamente in linea con i vari protagonisti delle sue pellicole, ovvero personaggi problematici, in forte contraddizione con se stessi, che vorrebbero essere qualcosa che non sono e che non sembrano essere in grado di fuggire da uno status irrimediabile, come fossero condannati.

 

Peterson è condannato in tutti i sensi, perché si tratta di un uomo – ancora oggi in vita – che ha passato più anni della sua vita in carcere che fuori, di cui 30 in isolamento. Un uomo egocentrico, pieno di rabbia e violenza ma che ripudia l’omicidio, che aggredisce le guardie penitenziarie ma che poi presenta un estro creativo ed un talento artistico che di certo nessuno si aspetterebbe da un personaggio simile. Refn carpisce proprio questo e psicanalizza Bronson, dividendo la storia in tre atti: un primo atto in cui Bronson recita un monologo su un palcoscenico, un secondo atto in cui esce di prigione in libertà vigilata per 69 giorni ed un terzo atto in cui il punto di vista è quello del pubblico che osserva la performance di Bronson ed il primo atto, dunque l’apertura del film, rappresenta un po’ la summa dell’intera opera e di ciò che Refn desiderava esprimere con essa

 

Hardy e la sua fisicità, con un corpo che è anche gabbia, con una mente che è anche prigione, la vera prigione di un Bronson che si sente più intrappolato nei giorni di libertà vigilata che quando è in galera, dove sente invece la possibilità di esprimersi al 100% e di potersi realizzare ed esprimere esattamente per quello che è. Un uomo pericoloso come detto, ma che ha una propria forma mentis, un proprio criterio d’azione. Quella prima scena sul palco lo dimostra, come lo dimostrano le faide con le guardie penitenziarie, la violenza estrema comunque insita in lui, quel rosso che sta a rappresentare sì il sangue e la brutalità dell’uomo, ma anche la sua passioneBronson formalmente è un Biopic, eppure Refn non è interessato a seguirne i pattern più classici, utilizza il genere e lo plasma intorno alla storia che vuole raccontare, dando alla narrazione una struttura classica ma allo stesso tempo moderna, lineare ma allo stesso tempo divisa in tre atti e senza nessun interesse nel collocare la storia ed il protagonista all’interno di un tempo o uno spazio ben precisi, con la prigione che è la prigione della sua mente e con una storia che potrebbe essere ambientata in un qualsiasi momento storico. 

 

Bronson è il primo film di una nuova fase nella carriera di Nicolas Winding Refn, che arriva dopo la fortunata trilogia di Pusher e dopo due flop pesanti con Bleeder e Fear X. Nonostante questo e nonostante, ad una prima occhiata, possa sembrare un cambio di rotta rispetto al passato, fosse anche solamente per via del genere Biopic, Bronson è invece perfettamente in linea con la storia del regista danese e rappresenta un ulteriore passo in avanti, una trasformazione ed evoluzione non tanto per i contenuti, che sono sempre quelli – la violenza, il colore rosso, lo psicanalizzare il protagonista ed affrontare tutti i suoi turbamenti e contraddizioni – quanto per la tecnica e per lo stile: Nicolas Winding Refn, bene o male, ha sempre saputo cosa voleva raccontare, quale fosse il cuore dei suoi progetti, ma non è mai riuscito a realizzare completamente la sua visione. Bronson non si può ancora ritenere l’apoteosi dello stile Refniano, ma ne rappresenta un tassello fondamentale. Un tassello che l’anno seguente, nel 2009, lo porterà a realizzare Valhalla Rising. Il marchio By NWR sta ufficialmente nascendo.

Voto:
4/5
Matteo Pelli
4/5
Vittorio Pigini
4.5/5
Bruno Santini
4/5
Riccardo Marchese
4/5
Andrea Boggione
4.5/5
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Voto del redattore:
Data di rilascio:
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