Articolo pubblicato il 15 Agosto 2023 da Bruno Santini
Presentato in concorso al 71esimo Festival del Cinema di Venezia, Hungry Hearts è il quarto film di Saverio Costanzo, che si avvale della magistrale (e premiata) interpretazione di Adam Driver e Alba Rohrwacher, nei panni dei protagonisti, insigniti entrambi della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile e femminile. Il film in questione, poi protagonista anche se solo nelle nomination dei successivi David di Donatello 2015, rappresenta una delle perle più importanti del cinema italiano degli ultimi anni. Di seguito, la trama e la recensione di Hungry Hearts, film di Saverio Costanzo.
La trama di Hungry Hearts di Saverio Costanzo

La recensione di Hungry Hearts, con Adam Driver e Alba Rohrwacher
Non sorprende che Hungry Hearts sia stato uno dei film protagonisti nell’ambito del Festival di Venezia 2014, dove è stato scelto tra i film in concorso per ottenere il Leone d’Oro e dove, soprattutto, ha ottenuto la doppia Coppa Volpi per le interpretazioni da protagonisti di Adam Driver e Alba Rohrwacher. Mescolando i generi e passando da un registro all’altro, Saverio Costanzo riesce a concepire un film che disorienta, anche visivamente – grazie al reiterato utilizzo del grandangolo che gli è reso possibile in virtù dell’utilizzo del rapporto 1,66:1 -, lo spettatore, non raccontando mai una verità dura e pura, ma lasciando sempre che la considerazione di chi guarda possa ricostruire ciò che viene mostrato sullo schermo.
All’inizio del film si è nel bel mezzo della commedia grottesca: i due protagonisti si incontrano in un bagno da cui non possono uscire a causa di un guasto alla porta, e lì si innamorano, nonostante il cattivo odore di lui e la compostezza di lei che si scontrano esteticamente, non soltanto grazie alla contrapposizione visiva tra i due attori, ma anche in virtù delle scelte cromatiche da parte del regista. L’interno del bagno di un ristorante è il primo elemento di claustrofobia che Saverio Costanzo decide di utilizzare in tutto il film, improvvisamente un thriller con i toni del dramma, non lasciando mai allo spettatore quell’ampio respiro che la cornice newyorchese potrebbe suggerire: dapprima il bagno, poi la povera casa dei due protagonisti, poi la casa della madre di lui. Jude e Mina sono due giovani personalità che tentano di avvicinarsi alla vita in maniera completamente distinta, non riuscendo mai a conciliare le proprie distanze pur con tutto l’amore che anima la loro relazione: lui è un uomo disinvolto, che non perde la speranza, mentre lei è una donna che trasforma la difficoltà in ossessione, temendo l’altro e ciò che è al di fuori dell’ambiente in cui vive.
Inevitabilmente, lo scontro diventerà sempre più forte, soprattutto con un bambino (seppur estorto), che tradisce quelle iniziali aspettative di conciliazione, allargando l’abisso e lacerando ancor più quella ferita che i due hanno sempre portato con sé. Grazie ad una sapiente messa in scena, anche se talvolta eccessiva nel tentare sempre di distorcere l’immagine in grandangolo, Saverio Costanzo non mostra mai i protagonisti in volto, filtrando sempre la loro immagine, restituendo costantemente un’impressione mutevole e lasciando lo spettatore al reale dubbio: da che parte stare?

Saverio Costanzo e la necessità di assumere una posizione in Hungry Hearts
Nell’ambito della recensione di Hungry Hearts, così come in quella di altri film che pongono in essere uno scontro sociale e morale tra i personaggi (si legga da esempio anche Storia di un matrimonio di Noah Baumbach), emerge sempre un elemento che rende lo spettatore protagonista di una valutazione ulteriore: la necessità di assumere una posizione. La faziosità, benché respinta in ogni modo da parte del regista Saverio Costanzo, serpeggia scena dopo scena fino a diventare reale all’interno di un film che, naturalmente, deve scegliere da che parte stare: in tal senso, la madre di Jude altro non è che un deus ex machina, pronta a sacrificare se stessa e la sua libertà in virtù della volontà di salvare la vita di suo figlio e di suo nipote. Il contatto tra Mina e suo figlio, benché libero e legittimo, sarebbe omicida: qual è allora il confine tra ciò che è giusto e ciò che è legittimo?
In fin dei conti, la nascita del figlio di Jude e Mina è allo stesso modo estorta: è Jude che, pur di non perdere lei a causa dei disastri economici in cui i due vivono, decide di avere un figlio, di fatto obbligando la donna – benché sia restia – con un atto vile, inaffrontabile. Chi dei due ha ragione? La madre estremamente protettiva, che teme per la vita di suo figlio e diventa ossessionata dalla sua salvaguardia, o il padre che ha visto nel figlio una profonda affermazione del suo egoismo? Chi nel proteggere un bambino lo uccide o chi, consapevole che gli arrecherà danno a contatto col mondo, sa che questo è il percorso da seguire? Tanti interrogativi che necessitano di una risposta faziosa: è lo spettatore, così come il regista, a dover scegliere, in un film che tenta di essere super partes ma che, in molti punti, assume lo sguardo di lui, comportando un evidente e ulteriore contenuto emotivo che conferisce maggiore spessore al film, ma che allo stesso tempo toglie a quest’ultimo una prospettiva di salvezza.