Articolo pubblicato il 15 Agosto 2023 da Bruno Santini
Conosciuto anche con il nome greco di Kynodontas (letteralmente “canino”), Dogtooth è il secondo film di Yorgos Lanthimos – se si considera Kynetta l’esordio del regista greco -, nonché il primo prodotto che abbia saputo dare una grande visibilità internazionale al regista, vincitore del premio Un Certain Regard al Festival di Cannes 2009 e insignito della candidatura a miglior film straniero nell’ambito dei Premi Oscar 2011. Benché in Italia sia stato possibile vedere il film al cinema soltanto a distanza di anni dalla sua uscita, l’attenzione per Dogtooth è ormai molto elevata da parte della nicchia appassionata al regista che, dopo The Lobster e La Favorita, può dire finalmente di aver conquistato una certa popolarità. Di seguito, la trama e la recensione di Dogtooth di Yorgos Lanthimos.
La trama di Dogtooth, film di Yorgos Lanthimos candidato agli Oscar
Prima di proseguire con la recensione di Dogtooth, il film di Yorgos Lanthimos candidato agli Oscar 2011, si considera innanzitutto la trama del film, che segue attraverso la sua sinossi: “Dogtooth, film diretto da Yorgos Lanthimos, racconta la storia di tre adolescenti (Aggeliki Papoulia, Christos Passalis, Mary Tsoni), tre figli che vivono in una casa, isolata nella campagna, con i loro genitori. L’abitazione in cui sono cresciuti è circondata da un alto muro, che li separa dal resto del mondo, che i tre non hanno mai vissuto. I loro genitori sono iperprotettivi e apprensivi a tal punto da non farli uscire fuori di casa ed educarli loro stessi. È così che i tre hanno trascorso per anni le loro giornate ascoltando nastri homemade per imparare nuovi vocaboli, ritrovandosi ad affibbiare significati errati a parole nuove, tanto che per loro “mare” è una poltrona e “zombie” dei fiori gialli. Il padre (Christos Stergioglou), un patriarca più simile a un despota, e la madre (Michele Valley), sottomessa al marito, hanno inventato l’esistenza di un quarto figlio, messo al bando per aver disobbedito alle regole, e hanno convinto i tre fratelli che potranno abbandonare la casa solo quando il loro canino sarà caduto. L’unica persona che ha accesso dal mondo esterno è Christina (Anna Kalaitzidou), agente di sicurezza nell’azienda paterna, assunta per soddisfare sessualmente il figlio maschio. Sarà quest’elemento esterno, che inizialmente tutti sembrano adorare, a rompere il fragile equilibrio instaurato da anni da due genitori e le conseguenze saranno disastrose.”

La recensione di Dogtooth di Yorgos Lanthimos
Dopo aver considerato la sua trama, si può proseguire con la recensione di Dogtooth di Yorgos Lanthimos. Nell’ambito della sua rivoluzione copernicana della conoscenza, Immanuel Kant ragionava a proposito di uno dei principi che sarebbero stati alla base della futura Critica della ragion pura: se un essere umano venisse totalmente privato delle nozioni di conoscenza che appartengono ai suoi simili e vivesse in un ambiente (tanto fisico quanto cognitivo) in cui l’educazione alla realtà comunemente data è distorta o inesistente, riuscirebbe comunque ad accedere alla medesima conoscenza altrui? In che modo concepirebbe la realtà quell’individuo? Per assurdo, se ad un essere umano si mettessero degli occhiali da sole fin dalla sua nascita e non ci fosse nessuno in grado di spiegargli che quell’immagine che osserva è filtrata dallo strumento, quell’essere umano penserebbe che il mondo abbia un colore opaco.
Questo è, sostanzialmente, il pretesto di Kynodontas di Yorgos Lanthimos: nell’ossessione di un’utopia che tenta di essere raggiunta in modo estremamente formale, una famiglia greca vive distante da qualsiasi contatto con la società, istruita ad una realtà che esiste solo ed esclusivamente nei confini dell’abitazione e incapace di concepire un mondo del cui sguardo viene privata. Lanthimos, regista greco che nella sua carriera ha risentito particolarmente dell’influenza geopolitica del suo territorio, compie così una complessa rappresentazione di quel fenomeno di isolazionismo a cui la Grecia è stata destinata nel corso della sua recente storia. L’espediente viene realizzato su più livelli: i concetti elementari, tra cui le parole, vengono piegati, rendendo zombie dei fiorellini gialli, mentre l’intera realtà esterna viene trasformata in potenziale pericolo, trasformando così un gatto nell’animale più pericoloso al mondo e l’asfalto in un terreno che non può essere attraversato se non in automobile.
Ancora una volta attingendo dalla tradizione culturale greca – così come farà successivamente in Il sacrificio del Cervo Sacro -, Lanthimos trasforma il padre di famiglia in un demiurgo, che plasma la realtà attingendo dall’educazione dell’esterno e costituendo quell’imitazione del reale che, all’interno dell’abitazione, crea le condizioni osservate all’interno dei 90 minuti. Un racconto che si serve, naturalmente, delle sue geometrie per funzionare in maniera pedissequamente schematica, lasciando alla sola intromissione esterna di una ragazza (scelta per dare libero sfogo alle pulsioni sessuali del figlio) l’arduo compito di distruggere l’enorme castello di carte creato per decenni. I personaggi di Lanthimos, attraverso un principio che caratterizzerà anche le opere successive del regista, sono cinici e freddi, diretti in modo da non riuscire a mostrare il trasporto emotivo neanche nel momento di un rapporto sessuale. Ed è a questa rigidità geometrica che si contrappone la vera intuizione di Dogtooth: il cinema come arte rivelatoria di un’altra verità, che giunge alla figlia maggiore attraverso alcuni dei film osservati in videocassetta; si fa chiamare Bruce dopo aver visto Rocky IV, scopre che i gatti non sono così tanto pericolosi dopo aver visto Lo Squalo, replica la danza di Flashdance indispettendo i genitori e, a poco a poco, instaura delle piccole crepe che conducono verso il finale.
Ciò che è senza nome è destinato ad averne uno e ciò che viene ossessivamente controllato è pronto a fuggire: il cinema di Lanthimos si fa sensoriale e si serve della privazione dello sguardo realizzando lo stesso finale che, in The Lobster, diventerà catartico: un nero a tutto schermo che viene vissuto dal personaggio e dallo spettatore, incapace di guardare nella sua condizione di immobilità. In Dogtooth si avverte ancora una mano sì sapiente, ma grezza, incapace di limare quegli eccessi autoriali e troppo impegnata nel tentare di stupire e impressionare lo spettatore. Quando Lanthimos ha saputo coniugare le due forme, nei suoi due capolavori, il risultato è stato sensazionale: in film come Dogtooth si rimane ancora a metà, incapaci di comprendere a pieno l’espressione di un’autorialità che si pone volontariamente dei limiti ma che esprime, pur con i suoi enormi difetti formali, tutto il suo genio.