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Recensione – Tutta la luce che non vediamo, la nuova serie Netflix

Recensione - Tutta la luce che non vediamo, la nuova serie Netflix

SCHEDA DELLA SERIE

Titolo della serie: All the Light We Cannot See
Genere: Drammatico, storico
Anno: 2023
Durata: 50-60 minuti (4 episodi)
Regia: Shawn Levy
Sceneggiatura: Steven Knight
Cast: Louis Hofmann, Lars Eidinger, Marion Bailey, Ana Maria Loberti, Hugh Laurie, Mark Ruffalo 
Fotografia: Tobias A. Schliessler
Montaggio: – 
Colonna Sonora: James Newton Howard
Paese di produzione: Stati Uniti d’America

Tutta la luce che non vediamo è una nuova serie Netflix, che ha fatto il suo debutto sulla piattaforma a partire dal 2 novembre 2023, in tutti i paesi in cui è attivo il servizio. Serie che coinvolge alcuni giganti del colosso di streaming, Tutta la luce che non vediamo adatta su schermo le vicende raccontate all’interno dell’omonimo romanzo, scritto da Anthony Doerr e vincitore del Premio Pulitzer. Di seguito, la trama e la recensione di Tutta la luce che non vediamo. 

La trama di Tutta la luce che non vediamo, nuova serie Netflix diretta da Shawn Levy

Prima di procedere con la recensione di Tutta la luce che non vediamo, si indica innanzitutto la trama della miniserie Netflix. Marie-Laure è una ragazza nata cieca che presenta una spiccata passione per le radio e che, da quando era piccola, ascolta il programma radiofonico di un uomo misterioso, che si fa chiamare “Il professore”, trasmesso solo su frequenza corta 13.10. Così anche Werner Pfennig, giovane orfano tedesco che, per il suo talento nel costruire radio, viene ben presto educato dalla Gestapo per diventare una grande macchina da guerra: i destini dei due giovani si incrociano nella cittadina francese di Saint Malo, dove Marie-Laure scappa insieme a suo padre Daniel LeBlanc, custode di un museo e di un diamante ambito dal sergente maggiore Reinhold von Rumpel. I due si affideranno alla tutela di zio Etienne, che nasconde un gran segreto. 

La recensione di Tutta la luce che non vediamo: una grande opportunità sprecata

Le aspettative per Tutta la luce che non vediamo erano sicuramente elevate, complice la collaborazione tra alcuni addetti ai lavori che si sono particolarmente distinti nel campo della serialità e non solo: da un lato Shawn Levy, regista dei film di Una notte al museo, oltre che del recente Free Guy e dell’ormai imminente Deadpool 3, che nella realtà di Netflix si è distinti per la sua regia di ben otto episodi di Stranger Things; dall’altro Steven Knight, il creatore di una delle serie Netflix più apprezzate negli ultimi anni, Peaky Blinders, oltre che regista di Locke, con Tom Hardy. Quanto agli attori, invece, interessava sicuramente ritrovare Louis Hofmann (il Jonas di Dark) su piccolo schermo, oltre che Mark Ruffalo e Hugh Laurie. Quella che poteva essere la potenzialità più elevata del prodotto Netflix si trasforma, per effetto di una sovraesposizione quasi algoritmica al modus operandi da piattaforma, nel difetto più grande di Tutta la luce che non vediamo: una serie che tenta di piacere così tanto e di seguire pedissequamente gli stilemi narrativi, estetici e di genere da diventare incredibilmente posticcia per lo spettatore, rivolgendosi anche ad una platea potenzialmente ampia. 


A partire dal Pulitzer omonimo, la serie Netflix tenta di presentare su piccolo schermo un adattamento che possa far conciliare alcuni dei tratti più ambiti da parte dello spettatore del prodotto: da un lato la guerra, la disciplina, l’orrore del nazismo; dall’altro l’aspetto drammatico e sentimentale di una famiglia che nasconde segreti e rivendica a gran voce il suo essere sovversiva. In una base di questo genere si innestano il deuteragonista e l’antagonista proppiano, figure soltanto lievemente tratteggiate ma che sembrano seguire, con sguardo basso e fisso, il corretto modo di fare, rinunciando ad un’ideazione, un piglio estetico o un’invenzione che su schermo possa acquisire un qualche carattere memorabile. Certo è che Tutta la luce che non vediamo non può dirsi una serie del tutto fallimentare: i suoi aspetti tecnici emergono, pur in una caratterizzazione artificiosa che trasforma la scenografia, pur impeccabile, in costante set-modello all’interno del quale muoversi entro spazi ben confinati e limitati: che si tratti di un effetto più o meno voluto, la sensazione di chi scrive è quella di ritrovarsi in quel medesimo modellino di città che Daniel costruisce per sua figlia, potendo soltanto osservare – e raramente toccare con mano – le caratterizzazioni dell’ambiente ben costruito. La reale mancanza della serie è, però, relativa ad elementi che avrebbero dovuto denotarla più di altri: l’orrore della guerra aerea imperversante e la cecità di Marie Laure farebbero pensare ad una serie che sappia giocare con gli aspetti legati alla colonna sonora e al rumore; così non è, dal momento che – per gran parte degli episodi – tali elementi restano confinati sullo sfondo o, addirittura, presentati in maniera ovattata.  


Narrativamente parlando, se il senso della disciplina nazista a cui Werner viene sottoposto funziona, indipendentemente da quali e quanti siano gli stilemi narrativi presentati, non si può dire lo stesso anche del clima orrorifico della guerra, che viene lasciato in secondo piano rispetto ad un’esigenza differente di messa in scena dei caratteri. Ed ecco che, se tale scelta poteva anche dirsi necessaria a fronte di una spiccata volontà di innestare l’importanza dell’etica francese nello spettatore, il tutto viene affidato ad un quasi cacofonico e antitetico accento britannico, con il quale Hugh Laurie sostiene a gran voce di “essere parte del popolo di Francia”. Semplicismo e ancora semplificazione sono le parole chiave della netflixizzazione di numerosi modelli e prodotti: un reale peccato, date le potenzialità del romanzo omonimo, assistere ad un risultato così tanto deludente. 

Voto:
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