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Recensione – The Old Oak: l’ultimo film di Ken Loach

Il film è il 27° diretto dal regista ed attivista britannico Ken Loach, nonché quello che chiuderà la sua florida carriera attraverso un vero e proprio testamento artistico.
La recensione dell'ultimo film di Ken Loach The Old Oak

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: The Old Oak
Genere: drammatico
Anno: 2023
Durata: 113 minuti
Regia: Ken Loach
Sceneggiatura: Paul Laverty
Cast: Dave Turner, Ebla Mari, Debbie Honeywood, Reuben Bainbridge
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Jonathan Morris
Colonna Sonora: George Fenton
Paese di produzione: Regno Unito, Francia, Belgio

Presentato in anteprima alla 76a edizione del Festival di Cannes, il 16 novembre esce nelle sale italiane “The Old Oak”, il nuovo (ed ultimo) film del regista ed attivista britannico Ken Loach. Ecco di seguito la recensione di “The Old Oak”.

The Old Oak: la trama del nuovo film di Ken Loach

Il 27° lungometraggio del regista Ken Loach narra dell’attività del signor Ballantyne (TJ per gli amici), che in una remota località dell’Inghilterra del Nord – ormai ex cittadina mineraria – gestisce il pub Old Oak, unico luogo pubblico rimasto per permettere alla ristretta popolazione di ritrovarsi davanti una pinta. Tanti sacrifici ed altrettanta buona volontà di TJ per mantenere operativa la propria attività, ma le cose iniziano a complicarsi quando nella comunità vengono accolti alcuni rifugiati siriani. TJ si mostra infatti solidale e stringe amicizia con una di loro, Yara, ma la comunità autoctona non è affatto altrettanto confidenziale e il signor Ballantyne rischia di perdere anche gli ultimi clienti/amici rimasti. Per TJ inizia così un complicato tentativo per far sì che entrambe le comunità possano interagire pacificamente tra loro.

La recensione del film di Ken Loach The Old Oak

The Old Oak, la recensione: quell’oscena speranza sussurrata a gran voce

<<Forza. Solidarietà. Resistenza.>>

Tra i candidati a gareggiare alla Palma d’Oro della 76a edizione del Festival di Cannes vi è anche “The Old Oak”, il 27° lungometraggio diretto dal regista ed attivista britannico Ken Loach che, all’età di 87 anni, abbandona dichiaratamente la macchina da presa con questo suo manifesto socio-politico, purtroppo sempre attuale. Da sempre attivista affianco dei lavoratori, in particolar modo della classe operaia, qui il regista tende infatti a lasciare un testamento artistico universale, sussurrando a gran voce quella parola oscena che è “speranza”. Il film sceneggiato dallo scrittore Paul Laverty – un sodalizio con il regista che porta infatti alla loro 14a collaborazione – si apre infatti con un depistaggio, per il quale vengono indicati luogo (Nord England) e tempo (2016) di un racconto purtroppo radicalizzato universalmente ancora e ancora nel 2023…soprattutto nel 2023. Dopo la visione di “The Old Oak” risulta davvero difficile non fare parallelismi con i nuovi sviluppi geopolitici in medio Oriente e in Ucraina, ma anche semplicemente rimanendo all’interno dei nostri confini nazionali, specialmente se l’ambientazione del film abbraccia il mare sterminato, bellissimo e crudele nell’inghiottire i suoi visitatori.

 

Un film che, indubbiamente, “va per il sociale” inviando il suo deciso e sostenuto messaggio per le nuove generazioni ma – anche e soprattutto – alle vecchie, dimostrando che si è sempre in tempo per avere un’altra occasione per migliorare la propria vita e quella degli altri. Indirettamente (ma nemmeno troppo) critico verso la situazione della Brexit, quell’amorevole vecchia quercia di Loach entra così a gamba tesa sulla nostra semplice e pungente realtà quotidiana, a senso unico, sentimentale, ma senza scadere nel becero patetismo su una situazione delicata (come quella dell’Immigrazione) che ormai da decenni si pone al centro delle questioni politiche e sociali che siano in Inghilterra, in Italia o nel resto del mondo. Il cinema verità, quello che ha contraddistinto la carriera cinematografica di Loach, che qui deve superare tutti gli ostacoli (è la sua ultima “occasione”) per sostenere attraverso le sue solide radici la “speranza”: una parola questa oscena, scandalosa e non convenzionale, ma che resta l’arma più forte per non arrendersi ed immaginare un futuro migliore dove tutte le comunità possano sfilare assieme in una parata, possano mangiare insieme e rimanere unite.

The Old Oak: una “vecchia quercia” dalle radici solide da proteggere

<<Non è beneficenza, è solidarietà!>>
Di cinema verità si accennava, ma non da meno in “The Old Oak” è la verità nella finzione cinematografica. Dedotto anche dai raccordi di montaggio con lente e calibrate transazioni, la regia di Loach avvolge i protagonisti in scena, entra nei loro appartamenti, nei loro furgoni, nei locali che vivono; entra nelle loro vite e le piazza bene in fisso primo piano con il tutto finalizzato ad una miglior empatia possibile, con lo spettatore che può fare proprie le loro frivole gioie e indicibili sofferenze. Un film che potrebbe dare l’impressione quasi dell’amatorialità, con una narrazione schematica che sostanzialmente non inventa nulla di nuovo e quasi si limita a documentare la triste realtà che ci circonda, una regia posata e statica, un cast prelevato quasi letteralmente “dalla strada” ed un comparto tecnico che non regala né squarci visivi abbaglianti e né momenti di epica tragicità. Eppure, tutto questo si tramuta nella bellezza travolgente della pura semplicità di saper raccontare una storia attraverso una mano esperta, sia quella che muove la penna della sceneggiatura sia quella che invece sostiene la macchina da presa, sapendo regalare in un più di un’occasione forti emozioni che potevano rivelarsi latenti.

 

Tornando invece alla questione del cast volgarmente “preso dalla strada”, The Old Oak riesce bene ad amalgamare in un’omogenea coralità attori professionisti e non, anche con specifiche e peculiari direzioni esplicitate dallo stesso regista durante le sue interviste. Tra questi interpreti troviamo infatti la coinvolgente coppia formata da Ebla Mari (Yara) alla sua prima convincente apparizione sul grande schermo e, soprattutto, Dave Turner nel ruolo del protagonista TJ, alla sua 3a collaborazione con Loach dopo i precedenti “Io, Daniel Blake” del 2016 e “Sorry We Missed You” del 2019. Questo, infatti, riesce a sorreggere sulle spalle il peso di una condizione umana necessaria e vitale, sebbene dalle traballanti basi sociali ed emotive che possono essere minate anche dalle persone che prima si pensava fossero le più strette, con Turner dalle lacrime implose che fa trapelare su schermo il senso del sacrificio fino all’ultimo inquadratura. Decisamente efficace la colonna sonora composta da George Fenton (“Gandhi”, “La leggenda del re pescatore”), specialmente nell’atto conclusivo del film.

Voto:
4/5
Christian D'Avanzo
4/5
Andrea Barone
5/5
Gabriele Maccauro
0/5
0,0
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