Articolo pubblicato il 24 Dicembre 2024 da Christian D’Avanzo
Intramontabile classico natalizio, Una poltrona per due rappresenta l’ottavo lungometraggio diretto da un regista, come John Landis, che viene particolarmente ricordato per un cinema sospeso tra le dimensioni della commedia e del “soft” horror. Di seguito la recensione di un film che, appunto, riprende in un certo modo queste due sfere artistiche, sospeso tra la commedia degli equivoci e l’orrore di una società sempre più devota dal Dio Denaro, tanto da scommettere 1$ sulla vita delle persone.
Una poltrona per due: la trama del film di John Landis
Il film nasce da un’idea originale degli sceneggiatori Timothy Harris e Herschel Weingrod e narra le tragicomiche vicende di due uomini completamente agli antipodi: Louis Winthorpe III e Billy Ray Valentine. Il primo è un agente di cambio di Filadelfia, bianco, non troppo velatamente razzista ed egoisticamente incentrato unicamente sulla sua carriera; il secondo è rozzo, nero, senzatetto e che prova a vivere alla giornata attraverso i suoi mezzucci, anche spacciandosi per un veterano del Vietnam. I due poli, tuttavia, saranno destinati a scambiarsi quando due avidi e vecchi fratelli azionisti decidono di scommettere proprio sullo scenario che si andrebbe a presentare se, Louis e Billy Ray, si scambiassero i rispettivi ruoli nella società. Con il primo buttato così in mezzo alla strada e con il secondo che si ritrova sfruttato per il piacere di altri, i due dovranno unire le forze per farla pagare ai fratelli Duke ma non saranno da soli in quest’impresa.

Una poltrona per due, la recensione: un’anarchica lotta di classe sotto la neve di Natale
Ambientato proprio nel periodo natalizio ed attingendo molto dal cinema sognante di Frank Capra, l’ottavo lungometraggio diretto da John Landis non dovrebbe però illudere lo spettatore che in Una poltrona per due si respiri una ristoratrice aria gioiosa e festosa, nonostante il suo esilarante tono stilistico. Da ormai 2 anni, infatti, negli U.S.A. era entrata nel vivo la politica del presidente Ronald Reagan, con lo stesso Landis che intende dire la sua sull’avvelenato sistema socio-economico statunitense basato su azzardo e contrattazione dove, in una vasca di squali come quelli della finanzia e del commercio, spesso e volentieri a rimetterci sono proprio i “pesci piccoli”, ovvero le classi meno abbienti, gli emarginati sociali costretti a credere ad un “american dream” che non esiste. Un sistema, questo, che non conoscerebbe infatti una netta distinzione tra vincitori e vinti ma solo di sconfitti e sconfitti che possono permetterselo, semplicemente dando l’aleatoria impressione di scambiare proprio questi ruoli per l’imprevedibilità del mercato, proprio come accade ai protagonisti di Una poltrona per due per ben due volte: la prima che dà il là allo sviluppo della trama e la seconda che la chiude ribaltando ancora una volta i ruoli dei personaggi in scena.
Pur infatti ambientato durante il periodo natalizio, il film non presenta chiari rimandi cristologici o più propriamente consumistici come ad esempio la figura di Babbo Natale (quando questo viene presentato è alcolizzato e tendente al suicidio), quanto l’emblematico oggetto di culto per il “vero” Dio della nostra contemporanea società: quello del Denaro. Per un semplice dollaro, infatti, si arriva a stravolgere completamente la realtà di due persone. Quello stesso dollaro (metaforicamente, ma nemmeno tanto) dall’impressionante potere che nell’effimera certezza della vita può trasformare un principe in un barbone, un ricco in un povero e viceversa. Dopotutto, le vie del Mercato sono infinite. Ma John Landis, nel suo anarchico film, vuole lasciare comunque una traccia ben visibile su una neve sporca di fuliggine, per non essere semplicemente spettatori anche dei processi macchinosi della vita e passivi dinanzi un destino ed un futuro fin troppo mutevole. La differenza imposta dal regista tra i fratelli Duke e gli improbabili nuovi amici Louis e Billy Ray sta proprio su cosa i personaggi scelgono di fare affidamento. I primi sono infatti così persuasi dal Dio Denaro che non pensano nemmeno di doversi affidare ad altro se non ad esso, puntando su una condizione che risulta intoccabile ma che incrinerà anche un legame rappresentato dallo stesso sangue fraterno; i secondi, squattrinati e senza molto da perdere, decidono di unire le forze per cambiare la propria condizione. Una lotta alla quale partecipano bianchi, neri, maggiordomi sottomessi, donne ed (ironicamente) animali. Una poltrona per due si mostra così come dissacrante satira sul potere e sulla lotta di classe, la cui fiamma deve essere tenuta viva anche quando la neve e le raggelanti temperature del natalizio capitalismo tossico provano in tutti i modi di spegnerla.
Una poltrona per due, la recensione: un cult dalle sane risate
Una spietata critica economica e socio-politica che, per il tema trattato ed il tipo di analisi, dovrebbe dare allo spettatore più di un qualcosa su cui amaramente rimuginare. Tuttavia, la prima visione di Una poltrona per due dovrebbe lasciare un sano sorriso in volto, per via delle belle risate tirate fuori durante i suoi 117 minuti, e questo è sicuramente merito di un grande regista come John Landis. Innegabilmente, infatti, la satira della commedia resta un’arma vincente per poter veicolare messaggi profondi ed avvelenati al sistema, ma per riuscirci infondo quella stessa commedia deve riuscire a colpire il suo pubblico dal punto di vista dell’ironia, cosa che l’ottavo film del regista di Animal House riesce a cogliere in pieno grazie soprattutto alla ferrea sceneggiatura di Timothy Harris e Herschel Weingrod. Gag a profusione, di umoristico genio e contornate da idee visive e narrative decisamente efficaci, su tutte l’intera sequenza del treno divenuta fortunatamente iconica.
Sospesa tra favola e grottesca parodia, “Una poltrona per due” vince e convince anche e soprattutto grazie ai suoi straordinari interpreti. La prima idea in sede di casting aveva virato sulla scoppiettante coppia formata da Gene Wilder (Frankenstein Junior) nel ruolo di Louis e da Richard Pryor (Nessuno ci può fermare) in quello di Valentine, ma l’idea venne costretta ad arenarsi per via di incidenti e scelte produttive (la coppia tornò in gran forma qualche anno più tardi in una commedia poco dissimile da questa come Non guardarmi: non ti sento). Fu così che i ruoli dei protagonisti andarono a Dan Aykroyd (con la precedente collaborazione con Landis che fu proprio The Blues Brothers) e ad Eddie Murphy, in piena rampa di lancio in quel periodo dopo il debutto in 48 ore di Walter Hill. I due danno vita a siparietti a dir poco esilaranti ed un rapporto interpersonale coinvolgente, nella nascita di un’amicizia nella distanza sociale più possibile. Accanto a loro, tuttavia, il cast non è da meno, registrando le prove dei veterani Ralph Bellamy e Don Ameche, nei ruoli dei fratelli Duke, di Denholm Elliott e soprattutto di Jamie Lee Curtis, alla sua prima convincente prova su schermo in una commedia dopo un inizio all’insegna dell’orrore e della tensione. Al di là quindi della sua spietata critica socio-politica, l’ottavo di John Landis si conferma inesauribile classico natalizio anche e soprattutto per la sua verve comica capace di strappare diverse risate grazie alla sua anarchica sceneggiatura e alle infallibili prove dei suoi interpreti.