Sulla piattaforma di streaming di Netflix è arrivato un nuovo film turco diretto da Erdem Tepegoz, che prosegue sulla scia di quel grande successo che le produzioni turche stanno ottenendo, anche nella televisione generalista: trattasi di Cenere, incluso nel servizio in tutti i paesi in cui questo è disponibile. Immediatamente, forse anche per effetto della trama e dei temi trattati, il film ha ottenuto un grande successo: ma ne vale davvero la pena? Di seguito, la trama e la recensione di Cenere, il nuovo film turco presente nelle top di Netflix.
La trama di Cenere: di che parla il film turco su Netflix?
Prima di proseguire con la recensione di Cenere, si indica innanzitutto la sua trama, che si arricchisce dei riferimenti a opere come Madame Bovary, Anna Karenina e Don Chisciotte:
Gökçe è una donna infelice. Nonostante abbia una carriera ben avviata, un marito che la ama, un figlio e la casa dei sogni, Gökçe si sente insoddisfatta della sua vita che, sotto sotto, non voleva fino in fondo e si ritrova a vivere nella totale apaia e nell’ombra di suo marito, editore di successo.

La recensione di Cenere: lo streaming sta annullando il confino tra arte e consumo?
Diciamocelo chiaramente e senza falsa ipocrisia: a meno che non si sia del tutto acerbi rispetto alle produzioni internazionali e al pensiero che c’è dietro un determinato film, non si aveva certamente bisogno di guardare Cenere per rendersi conto di quale sarebbe stato il livello del film. Gli indizi derivavano da elementi di diverso genere, ma possiamo citarne due su tutti: il primo, la produzione turca di un film che strizzava molto l’occhio ai vari Terra Amara che hanno trovato collocazione e successo nella televisione italiana, con l’aggiunta di citazioni a classici letterari che non avrebbero in alcun modo cambiato la qualità complessiva del prodotto; il secondo, relativo ad una storia che fin dalla sua sinossi presentava risvolti e finale prevedibilissimi, con una concezione della macchina narrativa che – nella storia del cinema a cui siamo abituati – è già ad un punto più esteriore rispetto a quella che viene qui presentata.
Ma qual è, allora, il vero problema di un film come Cenere? Diremmo piuttosto il fatto che esista ed è presente in uno spazio che, almeno nella sua concezione dovrebbe – in nuce – promuovere tutt’altro. Il motivo per cui realtà come Netflix sono nate è permettere una democratizzazione dell’arte, soprattutto di quell’arte considerata elitaria, inaccessibile e propria di circoli che altrimenti sarebbero più ristretti. Le esigenze produttive e le dinamiche del consumo che si orientano, sempre più, verso un bisogno altro determinano scelte di questo genere: Netflix non punterebbe in nessun caso su Cenere se non sapesse che il cinema turco è una macchina dal facile profitto, che si basa su un costante riuso di fatti, attori e situazioni, che praticamente non va mai in perdita e che – essendo attualmente in rampa di lancio – si presta praticamente a qualsiasi aspetto. L’idea di fondo (che potrebbe anche essere letta come classista, ma che in realtà interessa più il concetto generale che il consumatore) è che ci si stia orientando sempre più verso una dinamica di consumo a-critica, che ha poco a che fare con l’arte e con il cinema, che tenta di appiattire quanto più possibile la dimensione del ragionamento e della partecipazione dello spettatore.
Quanto al film in sé, c’è poco da dire a proposito di un prodotto che risulta essere totalmente sbagliato soprattutto nella sua disciplina e grammatica creativa. Una narrazione che risulta essere l’ibrido rigurgitato di altro, che pensa alla citazione nella maniera più didascalica possibile (letteralmente “citando”, cioè pronunciando la parola che rimanda a qualcos’altro), che rifugge la tecnica in qualsiasi modo possibile, affidandosi ad una saturazione estrema – da filtro Instagram – degli esterni e all’utilizzo di polvere davanti alla macchina da presa per gli interni. Sono sbagliati il ritmo e le interpretazioni che ritengono sinonimo di profondità dello sguardo il guardare nel nulla, così come appaiono privi di valore la scrittura e le sonorità (e la colonna sonora, con sovrabbondanza di pop) stesse di un film che sembra quasi scimmiottare la Turchia, presentando la tipica situazione da bazar, le solite strade polverose, lo stesso e uguale modo di fare, pensare e comunicare cinema di un paese che – negli ultimi anni – sta cercando di emergere nel mondo della settima arte. Produrre consumo e non arte, però, non porta troppo lontano.