Articolo pubblicato il 14 Giugno 2024 da Giovanni Urgnani
Gravity è uno dei film di maggior prestigio tra quelli a cui ha preso parte la star hollywoodiana Sandra Bullock, affiancata per pochi minuti da un altro attore famoso come George Clooney. Si tratta di un lungometraggio di fantascienza diretto da Alfonso Cuarón e distribuito per la prima volta al cinema in Italia nel 2013, ma è tornato disponibile in sala nella sua versione 3D (anche in 2D volendo) dal 10 giugno 2024 fino al 12 dello stesso mese, chiaramente per opera della Warner Bros. Italia. Agli Oscar del 2014 il film ha ricevuto ben 10 nomination vincendo 7 premi, tra cui la miglior colonna sonora, i migliori effetti visivi e la miglior regia. Ma come si potrebbe considerare ad oggi Gravity? Di seguito la recensione.
La trama di Gravity, film di Alfonso Cuarón con Sandra Bullock
Gravity è uno dei film di fantascienza più suggestivi tra quelli ambientati nello spazio, e durante i suoi 90 minuti si vede la protagonista interpretata da Sandra Bullock essere alle prese con una serie di difficoltà fisiche ed emotive. Ma di cosa parla il film di Alfonso Cuarón nello specifico? Di seguito la trama:
La brillante dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) è alla sua prima missione spaziale, mentre l’astronauta Matt Kovalsky (George Clooney) è all’ultimo volo prima della pensione. Quella che per loro doveva essere una passeggiata spaziale di routine si sta però trasformando in una catastrofe. La vita della dottoressa Ryan Stone è infatti appesa a un filo, ossia il cavo che la tiene agganciata all’astronauta navigato Matt Kowalski, col quale sta andando alla deriva nello spazio aperto. Un’improvvisa tempesta di detriti, causata dalla distruzione di un satellite spia da parte di un missile russo, ha danneggiato infatti irreparabilmente lo Shuttle e ucciso i compagni d’equipaggio, risparmiando loro che in quel momento si trovavano all’esterno per un’operazione di manutenzione del telescopio spaziale Hubble, condannandoli a vagare tra le stelle con l’ossigeno in esaurimento e senza possibilità di comunicare con Houston. Avvolti dal silenzio soffocante e dall’oscurità mitigata dalla Terra sullo sfondo, non gli resta che avanzare nell’ignoto verso la Stazione spaziale internazionale non distante dal punto in cui si trovano, con l’incombente minaccia che una nuova ondata di detriti arrivi a travolgerli.
La recensione di Gravity, un nobile esempio di grande cinema d’intrattenimento
Guardare oggi Gravity comporta una serie di riflessioni forse ancora acerbe all’epoca della sua uscita. Il film fantascientifico di Alfonso Cuarón, innanzitutto, è un nobile esempio di cinema d’intrattenimento, il quale a dispetto della maggioranza dei prodotti contemporanei non opta per una spettacolarizzazione veicolata tramite continui colpi di scena o attraverso il costante uso della violenza, tantomeno si avvale di teorie rese complesse per affascinare e catturare l’attenzione degli spettatori. Ciò che offre è una vera e propria riflessione sulla resilienza umana, sulle emozioni e le motivazioni che spingono alla sopravvivenza quotidiana, una spettacolarizzazione sì, ma esclusivamente terrena e terrestre. Da quest’ultimo punto di vista il prologo di Gravity immerge da subito nel racconto, con Matt, Ryan e il resto della squadra della NASA occupata a lavorare e a chiacchierare del rispettivo vissuto sul pianeta, il quale è sullo sfondo. La macchina da presa è in costante movimento, fluttua per mettere in risalto per l’appunto l’assenza di gravità in uno spazio infinito dove la Terra è il fulcro nello sguardo, scenografia mozzafiato in grado di offrire a Emmanuel Lubezki (direttore della fotografia) diversi spunti così da rendere chiaro ciò che si vede. In ogni situazione la luce, naturale e artificiale, la sua assenza e i controluce diventa una componente essenziale per mettere in risalto il volto, il corpo e soprattutto l’emozione intenzionalmente indotta in determinate circostanze. A tal proposito, il cineasta messicano dimostra di essere uno dei più efficienti esteti dell’epoca moderna, uno che permea cinematograficamente e narrativamente le sue opere. In Gravity si ha l’impressione di star osservando gli eventi da un’unica grande soggettiva esterna, ossia quella dello spettatore (neutrale), ma per intensificare le sensazioni provate dalla protagonista capita che la macchina da presa si muove fino a raggiungere gli occhi di Ryan (Sandra Bullock), ancorando dunque lo sguardo (attivo) alla sua di soggettiva.
La prima metà di Gravity è un prodigio visivo, la continuità più che dal montaggio viene costruita digitalmente dai finti piano sequenze e non dagli stacchi, per l’appunto. L’immersione è totale, ci si trova a fare i conti con l’ansia e le paranoie scaturite dai soliti interrogativi esistenziali a cui non è ancora stata data alcuna risposta, ma che sono tanto cari al genere fantascientifico. Si ha davvero la sensazione di star volteggiando nello spazio, e lì i corpi se non sono agganciati a qualcosa o se non si collocano in un’area circoscritta possono girare in eterno su se stessi, così come sbattere su qualunque superficie fino a perdere il controllo. Gli effetti visivi, combinati con la fotografia, rendono Gravity – almeno per certi versi – un film videoludico che trae giovamento proprio dal linguaggio di quest’altra arte. L’inizio è in medias res, il proseguo invece verte tutto sul melodramma e sulla tensione per il superamento degli ostacoli, livello dopo livello, proprio come in un gioco ambientato nello spazio. L’elemento difettoso di Gravity sopraggiunge nella seconda metà, quando non c’è più il personaggio di George Clooney a spezzare lo stress della protagonista con la sua funzionale ironia; l’impressione è che Sandra Bullock non esprima al meglio il limbo emotivo nel quale si trova intrappolata (metaforicamente nello spazio infinito), e anche sul fronte scrittura non c’è troppo da esporre. Infatti, si tratta di una storia semplice ed efficace, melensa al punto giusto, evocativa sia sul piano sentimentale che su quello esistenziale, quindi il finale del film riesce perfettamente a incarnare quei valori umani universali di cui gli individui avvertono la necessità. Guardare l’opera di Cuarón implica sprofondare nel vuoto, si deve trattenere il respiro per trovarsi assorti nei propri pensieri per circa 90 minuti. Sfortunatamente la seconda metà non preserva il sense of wonder costruito nella prima, ma la Stone si fa carico un aspetto psicologico che si tende a sopprimere, eppure che non tarda ed emergere quando si è di fronte a delle condizioni di vita opprimenti o difficoltose. La paura di morire risveglia in lei una consapevolezza diversa, capisce che anche se sulla Terra aveva perso la bussola (con la morte della figlia) deve andare avanti perché vivere è già di per sé un atto miracoloso di cui poter godere in diverse maniere.
Insieme alla protagonista lo spettatore, dunque, apprende l’unica verità possibile tra i dilemmi esistenziali più diffusi, e vivendo questa esperienza al cardiopalma nel finale è simbolico il rialzarsi per compiere dei “nuovi” primi passi (non a caso lei aveva assunto una posizione embrionale). La colonna sonora risulta indispensabile in quanto accompagna nel migliore dei modi le immagini, fungendo in un certo senso da vera e propria orchestra, enfatica e solenne. Al netto di qualche sequenza in calo, la storia melodrammatica e tutti gli altri elementi diegetici riescono benissimo a dar vita ad un film di fantascienza avvincente, giocoso e mai austero, artificioso per l’abbondante uso del digitale ma non per questo respingente, anzi. Oggigiorno ci vorrebbero altri film alla Gravity, in grado cioè di combinare il linguaggio cinematografico con quello videoludico per risvegliare quelle sensazioni legate agli istinti; in questo un esempio recente potrebbe essere la saga di John Wick, anche se punta comunque sulla violenza, fattore a quanto pare imprescindibile per accattivare il pubblico. Molto spesso i film di natura commerciale optano invece per presentare una sceneggiatura d’apparenza, intellettuale (per finta) e inutilmente gonfiata da concetti, teorie complesse e provocazioni sensazionalistiche, e ad un certo punto si giocano persino un jolly, ossia quei colpi di scena improvvisi e talvolta forzati. Gravity rigetta queste tipologie di stratagemmi e ci ricorda quanto il cinema possa essere vissuto come una giostra emotiva ed esperienziale, pensiero tanto caro ad un geniale costruttore di mondi come James Cameron, giusto per dire. Il film con Sandra Bullock e George Clooney è più nobile di quanto non si pensi, tutt’altro che pretenzioso, e perciò riesce ad essere trascinante, carismatico, persino esaltante. In 3D al cinema è memorabile, mentre se visto in casa propria sul piccolo schermo si potrebbe perdere qualcosa in termini di immersione: in sala il suono ancorato al vissuto della protagonista rende al meglio, mentre lo sguardo della macchina da presa gravita, come da titolo, e spettacolarizza la natura dell’universo.