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Radiance di Shuhei Hatano è la quintessenza del cinema di Wim Wenders

Distribuito in occasione del 60esimo Festival Internazionale del Cinema di Pesaro, Radiance è un cortometraggio di Shuhei Hatano in cui le ispirazioni a Wim Wenders appaiono particolarmente nette.
Radiance di Shuhei Hatano è la quintessenza del cinema di Wim Wenders

Presentato in anteprima nel contesto del Yamagata International Documentary Film Festival 2023, in Giappone, poi in Italia in occasione del 60esimo Festival Internazionale del Cinema di Pesaro, Radiance è un cortometraggio di Shuhei Hatano, che mostra – in un periodo di impossibilità di contatti e di interrelazioni – il risultato di un lavoro di riprese quotidiano, durato un anno. Impossibile non considerare l’ispirazione fondamentale di questo cortometraggio, che risiede nel pensiero e nella filmografia di Wim Wenders. Ma con quale risultato? Di seguito, si indica di più a proposito di trama e recensione di Radiance.

La trama di Radiance: il racconto di un anno di vita filtrato dall’occhio della fotocamera

È certamente difficile riuscire a offrire un senso di trama di Radiance, il cortometraggio presentato al 60esimo Festival Internazionale del Cinema di Pesaro, poiché il film in questione si struttura sulla base di una serie di filmati, di immagini catturate dalla macchina da presa, di luci e di ombre che vengono introiettate dal regista. Radiance è, in effetti, il quotidiano racconto di un anno, in cui lo spettatore condivide lo sguardo del regista sul reale.

La recensione di Radiance: l’importanza di Wim Wenders nel nuovo cinema giapponese

Quello con Radiance è inevitabilmente un rapporto che non può non essere filtrato dall’esperienza dell’oggi, dall’importanza della scomposizione in immagini dell’esistente. Shuhei Hatano, che ha deciso di intraprendere un percorso dalla durata di un anno, attraverso il quale si è fuso con la sua camera da presa, riprendendo – giorno per giorno – qualsiasi possibile oggetto della sua attenzione, è figlio di una scuola di pensiero che non nasce certamente nel 2020, con l’avvio del suo lavoro, ma che risulta essere la perfetta derivazione del cinema di Wim Wenders. Nell’osservare quella scomposizione ritmata di immagini, suoni e sensazioni evocate si percepisce tanto di quell’insegnamento che il regista di Il Cielo Sopra Berlino ha offerto alla cultura giapponese, diventando il vero possibile erede del cinema di Ozu. Non è un caso che il Giappone abbia deciso di candidare proprio Perfect Days, che si è spinto fino alla cinquina degli Oscar 2024 nella categoria di miglior film internazionale, sacrificando altre opere giapponesi di grande livello, tra cui Il Male Non Esiste di Ryusuke Hamaguchi.

Shuhei Hatano, insomma, è estremamente e devotamente figlio di quella cultura, che non manca mai di mostrare attraverso qualsiasi elemento presente nei suoi 18 minuti di cortometraggio. Il suo è un lavoro preziosamente fine, in un cui l’importanza maniacale del sonoro – che permea nella scena attraverso il fluire del fiume che accarezza, quasi cadenzando la scena, lo spettatore – si accompagna al puro racconto per immagini. Nel suo sforzo di sovrimpressione, destrutturazione e parallelismi, il regista si lascia andare anche ad un esercizio retorico di sineddoche e sinestesia, comunicando allo spettatore l’accostamento di elementi sensoriali talora differenti (come abbracciare una melodia), in altre occasioni addirittura sovrabbondanti: è il caso della luce del sole, che investe – fino a sovrastare la scena – la camera-occhio del regista e, di riflesso, lo spettatore.

In un presente in cui l’importanza dello sguardo diventa sempre più determinante, nel mondo del cinema così come dell’arte in generale, Radiance rappresenta un perfetto elemento di fusione tra l’ibridazione dello sguardo umano con quello dell’artificiale (la macchina da presa, che si unisce al punto di osservazione del suo fruitore fino a diventare osservazione stessa), a cui però si aggiunge l’intermediazione dell’ignoto, rappresentata dalla figura della bambina, a cui si deve un senso di purezza e di innocenza che ormai il regista sembra aver smarrito. La stessa conclusione del cortometraggio, con i crediti che vengono sostituiti dalla dedica attraverso la scrittura su post-it e le correzioni realizzate a mano, restituiscono la grande importanza di quell’artigianalità e di quel casalingo che il cinema ha bisogno di conservare.

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