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Venezia81: la classifica dei film del Concorso dal peggiore al migliore

Con la fine del Festival di Venezia 2024, è possibile considerare anche la classifica di tutti i film del Concorso: ma quali sono i migliori e quali hanno deluso le aspettative?
Festival di Venezia 81: la classifica di tutti i film

Il sistema di votazione per stabilire la classifica dei film del Concorso di Venezia81

Prima di proseguire con la classifica dei film del Concorso di Venezia81, è importante indicare innanzitutto quale sia il sistema di votazione scelto per l’organizzazione della lista che segue. Ognuno dei redattori di Quart4 Parete presente al Festival ha avuto modo di esprimere la propria votazione individuale: realizzando una media di tutti i voti, per singolo film, è stato possibile ordinare i film del Concorso di Venezia81 per gradimento espresso su scala decimale. I voti presenti in parentesi sono da considerarsi su scala 10 e risultato della media dei voti di tutti i redattori; in caso di ex-aequo, la disposizione avviene per semplice ordine alfabetico.

=21) Iddu – L’ultimo padrino (3,71)

Il primo dei due film all’ultimo posto della classifica del Concorso di Venezia81 è Iddu – L’ultimo padrino, film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Il racconto della latitanza di Matteo Messina Denaro, che avviene grazie alle interpretazioni di Toni Servillo ed Elio Germano, prende spunto da fatti realmente accaduti per modellare una narrazione incapace di formulare un qualsivoglia giudizio, rifugiandosi entro una concezione cervellotica della materia che tradisce lo spettatore e lo pone di fronte ad una forma distorta di idealizzazione del boss di Cosa Nostra. Un linguaggio inutilmente ampolloso e una narrazione costantemente retorica – anche nella rappresentazione dei piccoli paesi – complicano ancor più un disastro confezionato, su grande schermo, alla maniera di una fiction RAI.

=21) Joker: Folie à Deux (3,71)

Ultimo posto condiviso con Joker: Folie à Deux, che figura tra il peggio del peggio del Concorso di Venezia81. L’impronta stilistica, il clamore e gli elementi strutturali sono notevolmente differenti rispetto al precedente Iddu – L’ultimo padrino, ma il risultato è così tanto aberrante da non poter non collocare il sequel di Joker entro questa posizione, nonostante il suo respiro nettamente più internazionale per star system, budget e tanto altro. L’esigenza simil-maniaca di realizzare sequel nell’ambito della nostra contemporaneità ha condannato tanti prodotti e Joker: Folie à Deux rappresenta soltanto l’ultimo esempio di quanto e come si possa vituperare una materia potenzialmente importantissima.

Dissacrando l’icona del Joker, sfruttando il musical nella maniera più sbagliata possibile e, soprattutto, concependo l’intero film in modo totalmente sbagliato, il disastro è prontamente servito allo spettatore. Joker: Folie à Deux è un prodotto che tradisce quanto di buono era stato creato da Joker, che distrugge la bellezza del musical prestato alla materia filmica e che, soprattutto, spreca qualsiasi elemento potenzialmente valido, in nome di un merito progetto pubblicitario che – a guardarla bene – forse non ha senso di esistere neanche in ottica marketing.

19) Harvest (4,07)

Era stato portato a Venezia81 con grandissime intenzioni, considerando soprattutto l’impronta di Rachel Athina Tsangari nell’ambito del cinema occidentale. Harvest, però, che avrebbe potuto riqualificare un genere e riportarlo ad una questione puramente territoriale e non soltanto “infrastrutturale” fallisce esattamente nel suo elemento più necessario: la disposizione della materia del western, che qui cede ad un abbandono prolisso, stanco e sciatto. Le frecce all’arco di Harvest ci sono e non sono poche – complici una fotografia illuminatissima, una regia intelligente e un’interpretazione di Caleb Landy-Jones mai banale -, ma il risultato non riesce ad essere lontano da una sciatteria non soltanto fastidiosa per il film in sé, ma anche preoccupante per lo stato attuale del cinema europeo e dei suoi ragionamenti. Perdendosi in un reiterato e macchinoso discorso sull’immobilità, Harvest non evolve praticamente mai, concedendosi un finale telefonato e lasciando lo spettatore di fronte ad un prodotto mediocre, nonostante le sue potenzialità.

18) Campo di battaglia (4,78)

La fitta presenza di film in Concorso, nell’ambito del Festival di Venezia 2024, lasciava ben presagire a proposito dello stato del nostro cinema e un regista come Gianni Amelio non rappresenta certamente un nome dei tanti; le premesse non bastano a salvare Campo di battaglia, l’ultimo film con Alessandro Borghi protagonista che affronta il tema degli auto-mutilati e che, ben presto, lo trasforma in una guerra di “sterili” sentimenti, di silenzi insopportabili, di caducità del ritmo e di cadenze quasi caricaturali. Il Festival di Venezia 2024 ha accolto, e non appare assolutamente una scelta casuale, tantissima guerra tra i suoi prodotti: presente, passata, futura, immaginata o documentaristica. Lo sguardo di Campo di battaglia, a proposito del tema bellico, è probabilmente il più scialbo e ridondante tra tutti quelli osservati.

17) Trois amies (5,21)

Sono tre i film francesi presenti nel Concorso di Venezia 2024, ma il risultato non può dirsi assolutamente riuscito per il Festival che sembra aver puntato su titoli di secondo livello, rispetto agli altri grandi lavori che, invece, hanno preso parte al Festival di Cannes 2024. Il peggiore tra questi è senza dubbio Trois amies, un film che esaspera il verboso fino all’estremo e che non riesce – fin dalle prime scene realizzate con un voice over ingombrante – a comunicare mai davvero con lo spettatore. Nonostante la volontà di parlare del mondo femminile, con un atteggiamento che possa richiamare la classica commedia francese, Trois amies non riesce mai davvero nel suo intento e il risultato, che non ha neanche il pregio di intrattenere davvero data la tipologia di narrazione, appare piuttosto scarso.

16) Jouer avec le feu (5,28)

La situazione precedentemente citata non migliora particolarmente con Jouer avec le feu, un film che ha il pregio di presentare – nel ruolo da protagonista – un indiscutibile Vincent Lindon, ma che resta molto velocemente ingarbugliato entro la banalità nella presentazione di un discorso ideologico e politico. Si racconta della deriva di una qualsiasi famiglia francese, con un figlio che può cedere alle lusinghe dell’estrema destra a causa di cattive amicizie e che, per questo motivo, può rappresentare un pericolo non soltanto per il pensiero schierato di un padre, ma anche per la famiglia tutta. Jouer avec le feu non riesce mai davvero a fare suo il bel discorso di base, che finisce per essere così una sterile rappresentazione di temi tanto reiterati quanto ridondanti, avendo sì il pregio di mostrare una frattura familiare che diventa insanabile ma – allo stesso tempo – non riuscendo a proporre mai davvero qualcosa di nuovo.

15) April (5,85)

Con il quindicesimo posto della classifica dei film di Venezia81 entriamo in un regime di sufficienza che, anche se sfiorata come in questo e nel successivo caso, viene accompagnata da ottime votazioni di alcuni redattori e, soprattutto, prevede numerosi elementi positivi che sono oggetto della propria valutazione. Nel caso specifico di April, il secondo film di Dea Kulumbegashvili, ci si ritrova inevitabilmente di fronte ad una materia molto complessa: slow cinema, esagerazioni visive, provocazioni estetiche e la quasi assenza di controcampi definiscono l’ideale estetico di una regista georgiana che già con il suo esordio, Beginning, aveva dimostrato di essere uno dei volti più interessanti del cinema contemporaneo.

Catturata l’attenzione di Luca Guadagnino, anche nel team di produzione di questo film, Dea Kulumbegashvili realizza un lavoro importantissimo sul tema dell’aborto, sul quale non lesina e non si risparmia negli eccessi (la rappresentazione di un parto, con ripresa dall’alto, o quella di un aborto stesso) e trasforma ogni secondo in vitale momento di riflessione sul proprio cinema. Purtroppo, manca una vera e propria forza in termini di sceneggiatura e di narrazione, con il risultato di una pesantezza che tende ad avvertirsi nella seconda parte del film e che appiattisce la valutazione di molti redattori.

14) Kjærlighet – Love (5,91)

Ultimo film presentato in Concorso e accoglienza piuttosto tiepida, da parte della redazione di Quart4 Parete: Kjærlighet – Love di Dag Johan Haugerud è un film rarefatto, purtroppo troppo spesso impalpabile. Le luci nordiche della Norvegia illuminano la vita di protagonisti alla ricerca di un proprio posto nel mondo, intrappolati in delle routine dalle quali cercano di evadere. La regia sembra accordarsi alla gentilezza d’animo dei protagonisti, tuttavia il film sembra sempre essere in bilico tra il registro del dramma e quello della commedia, senza che una delle due anime riesca mai a imporsi, andando a depotenziarne l’impianto drammaturgico. Love poteva essere un grande film su vite ordinarie, ma finisce per essere a sua volta una pellicola dimenticabile.

13) Babygirl (6,08)

Probabilmente il film più divisivo presente nel Concorso di Venezia81, con riflessi che si osservano anche nella redazione di Quart4 Parete. Il nuovo film di Halina Reijn, che annovera Nicole Kidman, Antonio Banderas ed Harris Dickinson all’interno del suo cast, presenta numerosi elementi di contrasto che hanno permesso di far riflettere soprattutto a proposito di una rappresentazione femminista all’interno del lungometraggio: l’indignazione generale è stata consequenziale, con il trattamento del personaggio femminile (specie nel tanto discusso finale) che non è piaciuto a molti spettatori. Forse, però, sarebbe più corretto reinquadrare il film entro una cornice che appare disinteressata rispetto ad una tematica femminista, preoccupandosi piuttosto della dinamica dei rapporti di potere: in ogni caso, nonostante i riferimenti iniziali e finali ad Eyes Wide Shut di cui riprende attrice e tematiche fondanti, Babygirl non si distacca mai volutamente dal genere del trash e, per questo motivo, trova tale collocazione nella nostra classifica dei film in Concorso di Venezia81.

12) La stanza accanto (6,16)

È stato acclamato da gran parte della critica italiana e internazionale, probabilmente anche per effetto di una grande attenzione rivolta alle figure presenti all’interno del film. Il primo lungometraggio in lingua inglese di Pablo Almodóvar è però considerabile, e senza troppa ipocrisia, come un minore nell’incredibile carriera del cineasta, che sembra quasi vittima di una scarsa conoscenza della lingua, che si avverte in dialoghi costantemente banalizzanti e semplicistici nella loro forma e nel loro contenuto. Certo è che La stanza accanto, che riceve non a caso una grande attenzione soprattutto in virtù della presenza di Tilda Swinton e Julianne Moore (pur non brillantissime nell’interpretazione), ha il pregio di parlare di morte di calare il discorso entro una contemporaneità – anche se con ispirazioni neanche in questo caso esemplari – che viene rievocata socialmente, umanamente e politicamente, soprattutto grazie alla gestione del personaggio di John Turturro. Non è un risultato esemplare? Non di certo, considerando la carriera di Almodóvar, ma quanto si osserva sullo schermo è certamente buono.

11) Maria (6,28)

Pablo Larraín completa la sua trilogia delle donne con Maria, probabilmente il peggiore tra i tre film sulle figure femminili raccontate. Non che il biopic su Maria Callas sia un brutto film, anzi: il lungometraggio vive della lirica su cui si sostanzia, regala ad Angelina Jolie una delle interpretazioni più importanti della sua carriera e dimostra, ancora una volta, quanto importante sia l’attenzione di Pablo Larraín nei confronti del mondo femminile, rappresentato attraverso ipocrisie, difficoltà e ostacoli che derivano da una realtà pronta a sfruttare ogni figura; emblematica, in questo film, è la rappresentazione di un non più divinizzato Onassis, che lascia spazio ad un uomo che sfrutta la figura che gli si affianca, credendo di poter comprare ogni cosa. Il lungometraggio di Pablo Larraín, tuttavia, non sperimenta mai abbastanza e rispetto agli altri due biografici del regista (su Jacqueline Kennedy e Diana Spencer) resta ai nastri di partenza, accontentandosi di una narrazione accentratrice e di una divinizzazione – seppur necessaria – della figura trattata.

10) Leurs enfants après eux (6,78)

Il migliore tra i tre film francesi presentati nel Concorso del Festival di Venezia 2024, pur non riuscendo comunque ad eccellere in una selezione d’Oltralpe che ribadiamo essere piuttosto scarsa, è Leurs enfants après eux, che raccoglie anche i voti migliori da parte della redazione. Paul Kircher, che era stato già protagonista di Winter Boy di Christophe Honoré, torna a prestare il volto ad un adolescente stralunato, immerso in un contesto difficile della periferia francese, nel più classico dei coming-of-age che in questo caso acquisisce anche elementi di razza e di femminilità. Proprio l’elemento potenzialmente più interessante, la storia d’amore che si sviluppa nel corso degli anni, resta relegato sullo schermo, favorendo la classica rappresentazione della genitorialità violenta e del razzismo nei confronti di un ragazzo marocchino; anche in questo caso, probabilmente, ciò di cui soffre maggiormente il lungometraggio è l’eccessiva banalizzazione della materia trattata, ma la proposta visiva è molto intelligente, complici anche ottime interpretazioni.

9) Ainda estoi aqui (7,14)

Non è raro trovare film che permettano di esaltare delle singole interpretazioni, spesso sacrificando la materia raccontata: Ainda esoi aqui (I’m still here) di Walter Salles appartiene sicuramente a questa categoria. Facendo leva sull’interpretazione straordinaria di Fernanda Torres, il film racconta – anche se mai direttamente e con un piglio cronachistico – la storia dei desaparecidos, riflettendo il tutto entro un approfondimento delle dinamiche umane di una famiglia, il cui movimento esistenziale è approfondito nel corso degli anni. Sarebbe molto semplice – e di recente lo si è osservato anche con un altro film veneziano, Argentina, 1985 – cedere il passo al thriller, al racconto concitato e frenetico; Salles, invece, decide di affidarsi all’intimo e al famigliare, mostrando la crescita di ogni figlio, rappresentando i rapporti tra fratelli e, soprattutto, rappresentando ogni rapporto con la scomparsa di un padre in maniera differente.

8) Diva Futura (7,35)

Giulia Louise Steigerwalt è una delle registe italiane più promettenti a cui si possa guardare, non soltanto per il presente ma anche per il futuro del nostro cinema: da sempre in grado di farsi notare per le sue abilità in sede di sceneggiatura e scrittura dei dialoghi, con Diva Futura la regista dimostra anche di avere a disposizione una sapiente mano in termini di regia. Certo, il film che racconta la storia di Riccardo Schicchi non è perfetto e – dopo i grandissimi fasti iniziali – tende a sgonfiarsi verso la fine, ma è impossibile non notare e premiare la grande qualità comica di un film che racconta, e ha il pregio di farlo, la prima agenzia di porno in Italia. Con un Pietro Castellitto costantemente in parte (dall’atteggiamento simil-morettiano nelle parole e nei gesti), Diva Futura sublima la donna, fa ridere lo spettatore, non fa percepire mai la sua durata e, soprattutto, racconta una storia importante del nostro paese.

7) Vermiglio (7,41)

Una delle maggiori sorprese presentate nel Concorso del Festival di Venezia 2024 è Vermiglio, che vede una regia ispiratissima, delicata e – soprattutto – sapiente da parte di Maura Delpero. Il cinema italiano ricerca costantemente una sua nuova anima e, tra chi lavora in maniera artificiosa e chi procede “per levare”, parte della redazione che ha avuto possibilità di voto sembra protendere per questa seconda tipologia di rappresentazione. Vermiglio diventa così l’emblema unico di una Venezia molto sperimentale, grazie ad un film che sceglie deliberatamente il racconto per immagini, la placida tranquillità e l’impostazione dei silenzi, che sappiano accompagnare perfettamente la narrazione e l’azione dei personaggi. Ognuno dei micro-mondi di Vermiglio cede il passo al tempo, si evolve a modo suo, vive la sfida con un dopoguerra caotico e decisivo per le sorti del mai compatto stato italiano, senza lanciarsi in eccessivi gorgoglii politici ma “accontentandosi” di mostrare candidamente l’umano e il quotidiano.

6) Youth: Homecoming (7,6)

La chiusura di una delle migliori trilogie degli ultimi decenni di cui, tristemente, nessuno ha sentito parlare. Wang Bing non è di certo un autore sulla bocca di tutti, ma pochi come lui sanno realizzare cinema popolare, proletario, che parla di un paese enorme, stupendo e contraddittorio come la Cina e lo fa parlando con i diretti interessati, per una serie di documentari che non fanno altro se non raccontare la loro vita di tutti i giorni, una lotta per la sopravvivenza che nel 2024 non dovrebbe esiste in nessun angolo del mondo ed un governo che non si è mai fatto problemi ad imporre il proprio pensiero, schiacciando come formiche i più deboli. Dopo Youth: Spring e Youth: Hard Times – presentati in anteprima rispettivamente a Cannes76 e Locarno77 – ecco che il cerchio si chiude con Youth: Homecoming, uno dei migliori film di Venezia81 che corona l’incredibile lavoro del regista di Xi’an.

=5) El Jockey (7,78)

Due quinti posti nella classifica dei film di Venezia81 ordinati dal peggiore al migliore. Il primo di questi due va a El Jockey (Kill The Jockey), uno dei primi ad essere stato stato presentato nel Concorso e immediatamente una sorpresa per la materia raccontata e, soprattutto, per la capacità di messa in scena da parte di Luis Ortega. Film fresco, brillante e soprattutto capace di ragionare a proposito del tema della sessualità e dell’identità di genere (in maniera mani banale), El Jockey è una vera e propria perla di rara fattura, che arriva assolutamente in sordina e che stupisce per ognuno dei suoi comparti, interpretazione di Ursula Corberó compresa. Fin dalle primissime scene del film, con un’opening che sembra ricordare il primo stile di Pablo Larraín, El Jockey si presenta come un qualcosa di assolutamente nuovo per la contemporaneità, con un discorso sul vagabondaggio e sull’identità che viene reiterato, nel film, fino allo straordinario finale.

=5) The Order (7,78)

Il secondo tra i quinti posti ex-aequo va a The Order, il nuovo film di Justin Kurzel che riporta Jude Law nei panni di un protagonista radicalmente calato entro i confini della cultura americana. Muovendo da elementi di cronaca – relativi all’organizzazione The Order che ha realmente colpito negli Stati Uniti provocando anche la morte di Alan Berg – il regista riesce a creare un film di assoluto impatto, capace di analizzare tutte quelle profonde contraddizioni che esistono nella cultura e nell’ideologia americana e, soprattutto, non accontentandosi soltanto di mettere in piedi un thriller fatto di sparatorie e rapine ma, anzi, quasi rifuggendo questa formula piuttosto sterile. The Order è allora un film profondamente politico, in grado di rappresentare divinamente ogni personalità sullo schermo, permettendo un dialogo tra queste ultime e mostrando l’esatta disciplina (colma di contraddizioni e di semplicismi) di quei movimenti sociali sempre più radicati nel nostro tempo. Un film assolutamente necessario, in quello che probabilmente è l’anno più importante per la storia politica contemporanea.

3) Stranger Eyes (8,06)

L’incontro tra Lee Kang-sheng e Siew Hua Yeo prometteva tantissimo e il risultato non è stato assolutamente deludente. La Cina è uno dei primi paesi al mondo ad aver iniziato una massiva raccolta dei dati relativi alla popolazione, attraverso telecamere poste in ogni angolo della città: non solo uno scenario distopico, bensì una realtà dalla quale muove i suoi passi il film Stranger Eyes, che elabora un prezioso ragionamento sullo sguardo e che porta lo spettatore a ritrovarsi entro i confini di una telecamera, grazie ad un McGuffin – la scomparsa di una bambina – che offre il destro all’intera narrazione. Il risultato è assolutamente impeccabile, soprattutto grazie all’attenzione che viene rivolta ad ogni singolo momento, analizzato e rianalizzato nella sua forma: quello di Stranger Eyes è un mondo attuale, vivente, che viene sviscerato in ognuno dei suoi elementi estetici e contenutistici. Grazie ad un incredibile lavoro di scrittura e di interpretazioni, Siew Hua Yeo realizza uno dei film migliori che siano stati presentati nel Concorso del Festival di Venezia 2024.

2) Queer (8,14)

Il nuovo film di Luca Guadagnino era particolarmente atteso al Festival di Venezia 2024 e il risultato ha provocato una profonda scissione negli spettatori, tra chi ha gridato istantaneamente al capolavoro e chi ha riscontrato degli elementi di crisi nella messa in scena di Queer. Il suo posizionamento altissimo, al secondo posto nella classifica dei migliori film di Venezia81, rappresenta anche una visione piuttosto netta da parte della redazione, con approfondimenti che tuttavia appaiono necessari; probabilmente Queer non è il miglior film di Luca Guadagnino, così come non è quello in cui il regista abbia saputo trasformare il suo amore per una materia trattata in atto formale (Suspiria ancora primeggia in tal senso); eppure, che si tratti delle reiterate citazioni a David Cronenberg, del cinema cervellotico che si presenta nella seconda parte del film, della gestione irreale di Daniel Craig o di quei costanti movimenti quasi intestini – e carnali – del lungometraggio, Queer porta con sé l’etichetta di grande cinema. È indiscutibile la resa, così come non possono certo essere contestate le interpretazioni o la colonna sonora ancora una volta, dopo Challenger, affidata a Trent Reznor e Atticus Ross, per un film che trova il suo picco più estremo in quella fusione tra corpi che, in fondo, è anche l’emblema del Guadagnino autore.

1) The Brutalist (9,35)

Al primo posto della classifica dei film di Venezia81 una scelta assolutamente scontata, considerando il gradimento espresso dalla redazione di Quart4 Parete nei confronti del film, praticamente unanime. The Brutalist di Brady Corbet, presentato al Festival di Venezia 2024 con grandissima ambizione – sia per la sua durata, sia per la materia trattata -, rappresenta esattamente quella tipologia di cinema che merita immediatamente l’etichetta di “capolavoro” e che è destinata a diventare istantaneamente immortale. Adrien Brody è protagonista di un’epopea modellata sulla base di film come C’era una volta in America, Il Padrino o Casablanca, coniugando l’omaggio al passato e al genere del kolossal – che viene rievocato anche e soprattutto attraverso l’intermission di 15 minuti posto a metà film – e l’attenzione al post-moderno, che pulsa all’interno della narrazione praticamente perfetta di Brady Corbet. Un film straordinario, realizzato in 70mm, che rappresenta un trattato vitale sul cinema e del quale, nell’ambito della nostra contemporaneità, avevamo assolutamente bisogno.