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Recensione – Il tempo che ci vuole: il film diretto da Francesca Comencini con Fabrizio Gifuni

Presentato fuori concorso all’81esima edizione del Festival del cinema di Venezia, Il tempo che ci vuole è il sedicesimo film della regista italiana Francesca Comencini, film drammatico che vede protagonisti Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano e Anna Mangiocavallo. Ma com’è questo nuovo film della Comencini?
La recensione di Il tempo che ci vuole

Presentato fuori concorso all’81esima edizione del Festival del cinema di Venezia, Il tempo che ci vuole è il nuovo film di Francesca Comencini, la regista italiana (figlia del grande Luigi Comencini) ha diretto innumerevoli opere: 15 sono lungometraggi (per lo più documentari), delle volte collaborando con altri colleghi, mentre altre tre sono serie-tv o miniserie televisive. Sul piccolo schermo infatti, oltre ad aver diretto per intero Django (2023) e Luna nera (2020), si è distinta in quanto autrice, insieme a Stefano Sollima e Claudio Cupellini della trasposizione televisiva del romanzo Gomorra di Roberto Saviano, della quale ha diretto 15 episodi. Il tempo che ci vuole vede tra le sue star Fabrizio Gifuni, un attore che negli ultimi anni ha messo in mostra il suo notevole talento interpretando il personaggio di Aldo Moro nella serie tv Esterno Notte diretta da Marco Bellocchio. A tal proposito: com’è Il tempo che ci vuole? Di seguito la recensione del film.

La trama di Il tempo che ci vuole, con Fabrizio Gifuni

Il tempo che ci cuole è una delle opere selezionate per essere proiettata nella sezione fuori concorso di Venezia81. Si tratta del sedicesimo film diretto da Francesca Comencini, che vede tra i suoi protagonisti Fabrizio Gifuni .Ma di cosa parla effettivamente? Segue la trama di Il tempo che ci vuole:

“Questo film è il racconto molto personale di momenti vissuti dalla regista con il padre. Un racconto personale che però trova la giusta distanza nel fatto che tra il padre e la figlia c’è sempre il cinema come passione, scelta di vita, modo di stare al mondo. Il cinema come una rete che sottende il racconto dei loro scambi, crea lo spazio dell’immaginazione. “Con il cinema” dice, il padre “si può scappare. Con l’immaginazione”. Le immagini partono dai ricordi e come i ricordi amplificano alcuni segni salienti e ne cancellano altri. Immagini scarne, in cui non c’è quasi niente tranne loro due, e in cui il segno che è presente ha sempre qualcosa di esagerato: se qualcosa è grande è molto grande, se è lontano è molto lontano, se c’è un raggio di luce è molto luminoso, se qualcosa è vicino è molto vicino. Per quel che riguarda i set, invece, molta pienezza, confusione, fretta, molta gente, molto chiasso e anche qui tutto amplificato, in questa eccitazione della vita collettiva che sono i set: qui quelli di Pinocchio, sempre creati in mezzo al nulla, in terreni brulli di campagna.”

La recensione di Il tempo che ci vuole, diretto da Francesca Comencini

Riflettere sul proprio passato, elaborarlo e trasporlo a schermo è un’operazione molto complessa che purtroppo non si rivela essere vincente per tutti i registi che decidono di cimentarvisi. Sfortunatamente Francesca Comencini non rientra nel novero di coloro che possono dire di averlo fatto con successo. Il tempo che ci vuole è un’operazione contraddittoria che, più che analizzare onestamente il rapporto con il proprio padre, punta a strappare una facile lacrima allo spettatore meno avvezzo a una retorica molto diffusa nel cinema italiano contemporaneo. Il film si divide in due parti principali: quella dell’idillio dell’infanzia e quella delle difficoltà della vita adulta. Tuttavia già questa scelta presenta dei problemi non di secondo conto. Lo spettatore viene spesso lasciato senza alcun riferimento temporale, con avvenimenti che si succedono senza soluzione di continuità, nonostante tra una scena e l’altra passino delle volte persino 7 anni. Questo modo di narrare approssimativo e superficiale ha degli effetti a cascata su tutta la pellicola, che si configura nel suo complesso come confusa e priva di una direzione univoca, a partire dal fatto che, se non si conoscesse a priori la storia della regista, si assumerebbe che essa fosse figlia unica priva di madre e sorelle. Tutte le figure femminili della famiglia Comencini non solo non sono mai mostrate ma nemmeno menzionate di sfuggita, un’esclusione che sarebbe stato il caso di spiegare seppur brevemente, almeno che non si pretenda dagli spettatori in sala un’approfondito studio pregresso della suddetta famiglia.

La divisione in due parti non si rivela efficace nemmeno a livello drammaturgico. Luigi Comencini viene infatti descritto inizialmente come un padre modello che viene comprensibilmente visto da sua figlia alla stregua di un supereroe, per poi tramutarsi nel secondo tempo della pellicola in uno spudorato e violento misogino, incapace di stare accanto alla figlia se non tramite atteggiamenti intimidatori. Non vi sarebbe alcun problema in una cesura così netta, non fosse altro che per il fatto che nella prima parte del film non sono introdotte le premesse che dovrebbero portare alle conclusioni della seconda. Comencini viene presentato come un signore dai modi gentili con tutti e rivela la sua scorza dura soltanto per combattere due palesi ingiustizie (una su un set cinematografico e l’altra in una scuola), nonostante ciò Francesca Comencini, una volta cresciuta, rinfaccerà al padre di aver tenuto dei comportamenti misogini fin dalla sua infanzia nei confronti suoi e di altre donne, un elemento che nella pellicola non è presente e che viene lasciato all’immaginazione dello spettatore. Nel secondo tempo del film poi il regista lombardo rivela la sua (vera?) natura di despota della famiglia. Da questo punto in poi il film sarà un continuo alternarsi di scene legate alla tossicodipendenza della regista (sulle quali è meglio stendere un velo pietoso) e di conseguenti atti intimidatori e violenti operati dal padre, il quale cerca maldestramente di offrirle in tal modo una mano.

Questo schema si ripete per tutta la seconda parte della pellicola che nel corso di (forse) 20 anni sviluppa il rapporto tra i due protagonisti. Una volta giunti al finale tuttavia Francesca Comencini decide ulteriormente di sparigliare le carte in tavola e di mettere in scena una sequenza in totale contraddizione con quanto visto fino a quel momento e il cui unico intento è quello di strappare una lacrima a quegli spettatori che la storia è riuscita a coinvolgere, di cui sfortunatamente chi scrive questo articolo non fa parte.

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Il tempo che ci vuole
Il tempo che ci vuole

La regista Francesca Comencini riflette circa il suo rapporto con il padre Luigi Comencini in un film che abbraccia circa 40 anni di storia italiana.

Voto del redattore:

4 / 10

Data di rilascio:

26/09/2024

Regia:

Francesca Comencini

Cast:

Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano e Anna Mangiocavallo

Genere:

Dramma

PRO

La recitazione dei protagonsti
I salti temporali
L’estremo didascalismo
La pessima cesura tra le due parti della pellicola
Il finale ricattatorio