Articolo pubblicato il 9 Ottobre 2024 da Vittorio Pigini
Dal 3 ottobre 2024 è disponibile sulla piattaforma streaming di Disney+ Hold your breath, il nuovo horror che vede protagonista Sarah Paulson. L’attrice vincitrice del Golden Globe ed ormai una vera e propria diva per il piccolo schermo, specialmente nel campo del thriller-horror, torna a recitare in un film 4 anni dopo il precedente Run, del quale riprende molto del suo personaggio.
Si tratta in questo caso, con la regia di Karrie Crouse e William Joines, di un nuovo thriller-horror ambientato nell’Oklahoma degli anni ’30, dove la pestilenziale aria della Grande Depressione si abbatte su una famiglia di contadini. Ecco di seguito la recensione di Hold your breath con Sarah Paulson.
La trama di Hold your breath, il film horror con Sarah Paulson
Su sceneggiatura del regista Karrie Crouse, recentemente autore di 8 episodi della serie tv Westworld, Hold your breath è ambientato negli anni ’30 del centro-sud degli Stati Uniti, in Oklahoma. Protagonista della storia è la famiglia Bellum, formata dalla madre Margaret e dalle sue figlie Rose ed Ollie, con il padre Bill in cerca di lavoro altrove e lontano ormai da troppo tempo.
La famiglia sta infatti cercando di sopravvivere portando avanti la propria fattoria in un periodo storico, come quello delle Dust Bowl, le quali stanno uccidendo il raccolto e mettendo a repentaglio la vita degli abitanti della comunità. Un’invasione di polvere e sabbia che verrebbe ricondotta alla storia dell’Uomo Grigio, mentre un uomo sconosciuto sta effettivamente irrompendo nella vita della famiglia Bellum, ma ci si potrà fidare?

La recensione di Hold your breath: la polvere nascosta sotto il tappeto
Quello che la coppia di registi suggerirebbe allo spettatore con il loro primo film, già dal titolo, è di trattenere il respiro per non inspirare la nauseante aria di incompiutezza che Hold your breath emanerebbe lungo l’intera visione. C’è un certo rammarico nel passare in rassegna l’analisi del film, per via infatti di una mancata incisività nel portare avanti una storia e tematiche mosse da nobili intenti, ma fatalmente disperse in maniera a dir poco trasparente.
Con il film di Crouse-Joines ci si addentra in un terreno desertificato e privato di vita, quello degli Stati Uniti post Grande Depressione, in particolare nell’Oklahoma degli anni ’30 insabbiato dal fenomeno del c.d. Dust Bowl. Si tratta in questo caso di un disastro ecologico realmente accaduto, per il quale la siccità e l’errata strategia di coltura del terreno ha portato alla creazione di veri e propri “uragani di sabbia” e polvere. Non solo un gran numero di vittime, a causa degli evidenti problemi respiratori, ma anche un quasi totale deterioramento del terreno che ha spinto oltre 2 milioni di famiglie ad emigrare per cercare lavoro, con il relativo spopolamento delle grandi pianure U.S.A..
Una breve disamina storica, giusto per indicare come Hold your breath avesse tutte le carte in regola per essere un film non solo interessante, ma anche importante. I drammatici effetti della Grande Depressione, i cambiamenti climatici uniti ad un occhio di riguardo alla recente condizione pandemica, senza nascondere sotto il tappeto una certa trattazione del ruolo femminile e dell’istituzione della famiglia all’interno del film. Una serie di tematiche di abbondante contenuto buttate, tuttavia, quasi completamente alle ortiche, scegliendo maggiormente di fare leva su un thriller-horror fiacco, stancante e prevedibile.
I problemi dell’abbandono alla povertà e della metaforica “polvere”, tanto esasperata quest’ultima nella prima parte con fastidiosa ripetitività tanto visiva quanto dialettica, spariscono quasi completamente nella seconda, incentrata invece sulla misteriosa presenza del nuovo arrivato e sulle condizioni della matrona di casa. La “polvere” diviene così un’effettiva allegoria di un Male sempre più ingombrante, capace di insinuarsi in ognuno di noi attraverso impercettibili fessure.
Oltre infatti ad una serie di illogicità dal punto di vista dello sviluppo narrativo, la parte del thriller, del mistero e della tensione, viene lasciata ad una sceneggiatura incapace di creare un vero e proprio effetto sorpresa, con il deterioramento psicologico di Margaret evidente fin da subito, così come l’improvvisa entrata in scena del personaggio di Wallace. Per quanto concerne l’orrore, inoltre, giusto un paio di sequenze di piacevole impatto sono costrette a lasciare il passo a numerosi jump-scare, i quali stonano non poco con l’atmosfera strisciante e sostenuta costruita per la messa in scena.
Sotto quest’ultimo profilo, Hold your breath si riferirebbe infatti quasi ad un folk-horror, avendo molti punti in comune con questo sottogenere come l’elemento sovrannaturale e/o di superstizione (l’Uomo Grigio), l’isolamento in un ambiente rurale e lo stretto – spesso e volentieri sofferente – incontro/scontro con la Natura. Peccato che, anche questo lato dell’orrore, viene abbandonato a sé stesso, con la figura dell’Uomo Grigio di dubbia funzionalità all’interno della narrazione che resta una nota a margine del racconto, un presentimento rimasto sospeso nella nauseante aria che si respira.
Un dubbio di superstizione/sovrannaturale che si mantiene fino alla chiusura del film, con la suddetta immagine che va a macchiare un finale analiticamente interessante, nel quale le due figlie (la nuova generazione) riesce a togliersi di dosso l’opprimente gabbia di paura ed errori istituita a forza da quella precedente, quella che ha portato alla Grande Depressione, con lo sguardo sognante rivolto verso un rigoglioso futuro.
La recensione di Hold your breath: un thriller-horror stanco ed impolverato
Resta difficile poter affermare come sia stata proprio la collaborazione fra i due registi, alle prese con il loro primo film, a far perdere la bussola a Hold your breath il quale, si ripete, parte da intriganti premesse. Per tutta la prima parte viene infatti restituita allo spettatore un’atmosfera claustrofobica ben ricercata sullo schermo. Questo non solo grazie alla costruzione delle immagini in interni, ma riuscendo anche a rendere quelli esterni più stretti e confinati. Oltre a questo ed eccezion fatta per un paio di sequenze suggestive la fotografia desaturata di Zoë White non riesce ad enfatizzare i chiaroscuri, lasciando una costruzione dell’immagine pulita (polvere e sabbia a parte) ma davvero troppo poco incisiva.
In ogni caso, l’atmosfera asfissiante viene ben assemblata qui anche dall’importante lavoro di rievocazione sensoriale sul contribuito sonoro, tanto nella realizzazione stessa della colonna sonora, quanto nella cattura degli elementi di scena, come i colpi di tosse grassa che aiutano a mantenere una linea malsana ben marcata. Il problema, di questa intrigante costruzione di messa scena, resta il fatto che Hold your breath si fermi fatalmente a questo, rincarando la dose ogni volta per poi virare verso altri registri di visione e senza mai affondare un colpo decisivo. Ne fuoriesce una visione stanca, ripetitiva e allo stesso tempo contraddittoria, senza idee vincenti, il tutto attraverso un ritmo che annaspa così come i suoi protagonisti negli uragani di polvere e sabbia.
Un orrore continuamente evocato su schermo, ma attraverso l’utilizzo di jump-scare di bassa lega ed una tensione narrativa che non riesce veramente mai a coinvolgere. In quest’ultimo aspetto, a non sostenere forse la causa è la prova del cast: anonimo e monocorde il Ebon Moss-Bachrach di The Bear mentre, quelle che sembrerebbero metterci più cuore rispetto agli altri, sono le “piccole di casa”, ovvero Amiah Miller (la Nova di The War – Il pianeta delle scimmie) ed Alona Jane Robbins. Un discorso a parte lo dovrebbe meritare invece Sarah Paulson, ormai una vera e propria diva per il piccolo schermo soprattutto nel campo del thriller-horror.
Particolarmente ricordata per American Horror Story e la più recente Ratched, l’attrice vincitrice del Golden Globes e dell’Emmy per la meravigliosa miniserie American Crime Story: Il caso O.J. Simpson mantiene il “suo” personaggio, in termini non necessariamente positivi. Questo sarebbe quello della “psicotica carceriera” che, almeno inizialmente, sembrerebbe mossa da istinti paternalistici per poi rivelare la sua pericolosa natura.
Un personaggio infatti già riscontrato in quello di Mildred Ratched dell’omonima serie, per certi versi della dott.ssa Ellie Staple in Glass, o della madre Diane nel precedente film Run, estremamente simile a Hold your breath sotto questo punto di vista. Nonostante la sceneggiatura non aiuti, la Paulson riesce comunque a mantenere una certa classe recitativa nella trasformazione della sua follia ma, uscendo dai confini dello schermo, si tratterebbe di un ruolo e di una prova attoriale che viene essa stessa coperta dalla polvere.