Articolo pubblicato il 7 Novembre 2024 da Bruno Santini
Sulla piattaforma di streaming Netflix, a seguito del successo della prima stagione con Matilda De Angelis protagonista, arriva La legge di Lidia Poët 2, la seconda stagione della serie che racconta la vita – naturalmente romanzata – della prima donna a entrare nell’Ordine degli Avvocati in Italia. Con caratteristiche e difetti che si riprendono direttamente dalla prima stagione, e con una serie di elementi ironici che tentano di essere maggiormente saturati per avvicinare il prodotto ad un pubblico adolescenziale, non si fa fatica a dire che la serie – ancora una volta – rappresenta un grandissimo passo falso, nello stesso periodo storico in cui Groenlandia ha, invece, offerto un’altra miniserie di tutt’altro spessore: Qui non è Hollywood. Ma per quale motivo? Di seguito, si indica tutto ciò che c’è da sapere a proposito della trama e della recensione di La legge di Lidia Poët 2.
La trama di La legge di Lidia Poët 2
Prima di procedere con la recensione di La legge di Lidia Poët 2, è importante sottolineare innanzitutto quale sia la trama ufficiale della serie con Matilda De Angelis protagonista:
Nella seconda stagione de La legge di Lidia Poët, l’avvocatessa pioniera non si arrende alla legge che le impedisce di esercitare: ora punta a cambiarla. Collaborando con il fratello Enrico su nuovi casi, Lidia lo spinge a candidarsi in Parlamento per dare voce alla sua battaglia per i diritti delle donne. Delusa in amore, in particolare da Jacopo, che ha venduto la villa di famiglia, Lidia si ritrova a collaborare con lui in un’indagine segreta che li costringe tuttavia a confrontarsi e in qualche modo ritrovare la vecchia complicità. Nel frattempo, il nuovo Procuratore del Re, Fourneau, che sorprende Lidia trattandola come pari, la mette di fronte a sentimenti contrastanti e al sacrificio personale imposto dai suoi ideali. Nei sei episodi, Lidia affronta sfide crescenti in un mondo costruito per escludere le donne, con intelligenza e ironia, ma anche con una crescente inquietudine interiore che la porta a interrogarsi sulle bontà delle scelte fatte.
La recensione di La legge di Lidia Poët 2: apri tutto, Biascica
Diceva il celebre Duccio di Nini Bruschetta in Boris – Il film, salvo poi correggersi con un più tecnico “apri le luci diegetiche”, poiché il lavoro dello scenografo era stato così impeccabile da rendere gli interni in grado di brillare di luce propria. La fiera dell’assurdo di Boris dimostra tanto del modo di fare e di disfare tipica del cinema e della televisione italiana, una realtà che spesso si confonde tra verità e parodia e che, soprattutto, può regalare degli strafalcioni tecnici così tanto evidenti da provocare un non assolutamente giustificato riso. C’è da partire evidentemente dalla fotografia patinata con apri tutto di borisiana memoria, per la recensione di La legge di Lidia Poët 2, una serie che – complice anche la distribuzione su Netflix – ha evidenti ambizioni internazionali e che si serve di una delle attrici di punta dell’Italia contemporanea, venduta come figura che ha saputo collaborare anche con Nicole Kidman e che al secolo accumula prodotti su prodotti.
Il risultato, tra sussurri che si fatica a sentire e cadenze tra lo sbiascicato e il mormorato, resta sempre lo stesso: non è questa la sede per valutare la carriera di Matilda De Angelis, né ci si vuole lanciare in analisi troppo profonde di quali possano essere le reali capacità e qualità di un attore, ma ciò con cui ci si confronta è un insieme di interpretazioni caricaturali che tentano di nascondere la polvere (l’incapacità di recitare) sotto il tappeto, evidentemente non riuscendo nell’intento; l’ironia, evidentemente un fattore in più di questa seconda stagione su Netflix, trasforma molto velocemente il deus ex machina di ellenica memoria in un sacco di sabbia che cade e sprofonda sul palco, non solo non ottenendo il risultato sperato (non si ride e sarebbe difficile farlo), ma causando anche un certo fastidio nei confronti dell’interlocutore. Questo perché, accanto ad una tecnica rivedibile ma mai rivista, ad una scrittura caricaturale e ricca di strafalcioni e ad interpretazioni al limite del ridicolo, si ravvede una certa impostazione di dialoghi, comparse e movimenti scenici che apparirebbe vetusta e superata anche su un palcoscenico teatrale e al cui confronto i tanto odiati Massimo Ranieri che reinventa Eduardo De Filippo appaiono quasi rivoluzionari nella loro portata; la televisione ha tante regole, e tra queste i manuali annoverano – o forse lo danno per scontato – quella secondo la quale il peso del palcoscenico e degli andirivieni dal sipario è sempre un qualcosa da evitare: evidentemente, si tratta di pagine non lette.
Al di là di tutto, per La legge di Lidia Poët 2 si ribadisce un concetto che la prima stagione mostrava già cristallinamente: il nucleo fondamentale resta, e giustamente, ancora una volta il racconto femminista che avrebbe anche le carte in regola per essere tanto interessante quanto ben reso ma che – per effetto di una scrittura ridondante e mai arguta – finisce per diventare un elemento raffazzonato e diluito tra futili slogan e frasi a effetto, questa volta prestate allo scimmiottamento tricolore di Enola Holmes (ed è dir molto…) e che si perdono tra il cliché di bacioperuginiana memoria e il riciclo di attori RAI che somiglia ad un maldestro tentativo di tutti per uno, uno per tutti. Qui però non c’è nessun D’Artagnan e nessun contropotere da sconfiggere, ma soltanto tanto – e grave – spreco di risorse. In questi casi, forse, è meglio passare velocemente oltre.