Articolo pubblicato il 28 Dicembre 2024 da Bruno Santini
Il mondo dei cinecomics, che piaccia o meno o che si sia realmente affezionati a tutti i possibili riferimenti per quanto riguarda fumetti, storie letterarie e narrazioni di vario genere, perviene ad una serie di atteggiamenti estetici, contenutistici e anche legati ad una sorta di folklore che anima i fan. Talvolta, in effetti, è stato possibile notare delle faide non da poco, soprattutto nelle comunità del web che si sono piuttosto inasprite negli ultimi anni, specie per quel che concerne la misura degli snyderiani e degli anti-snyderiani. Il mondo contemporaneo, che di suo è tremendamente fazioso e polarizzato, tende a creare schieramenti e sette e tutto ciò sembra quasi essere il superamento del tifo da studio, eccedendo quasi in una forma di sadomachismo visivo che critica (o difende, o attacca, o semplicemente insulta in una delle formule più classiche del discorso-da-social) a priori.
Uno degli esempi più recenti è quello del Superman di James Gunn, che si mostra attraverso un nuovo trailer che appare esattamente l’opposto di quel supereroe portato sullo schermo da Henry Cavill: solare, autoironico, colorato e con tanto di mutandoni rossi, oggetto di una profonda ira e di una conseguente spaccatura tra estimatori e detrattori di questa scelta. E se tutto questo sembra quasi essere esagerato nelle sue modalità, sorprenderà sapere che ci sono delle vere e proprie scuole di pensiero sul perché un paio di mutande rosse indossate da David Corenswet siano giuste o sbagliate. Ma cerchiamo di capirne di più.
Il senso dei mutandoni rossi di Superman
Con una serie di dichiarazioni che sono state rilasciate a mo’ di conferenza stampa, James Gunn (un eccellente regista a cui non si può certamente riconoscere il dono di mantenere un segreto o di buttare la polvere sotto il tappeto) ha spiegato perfettamente la genesi di una delle scelte più discusse negli ultimi anni: i mutandoni rossi che il Superman di David Corenswet indossa nelle prime immagini promozionali e nel trailer del film, che darà il via al nuovo DCU “governato” dallo stesso regista della trilogia di I Guardiani della Galassia.
Per essere sintetici, la scelta è stata discussa dapprima telefonicamente con Zack Snyder: non che il regista, ormai centro di una forma di culto divinatorio (e al contempo anche di tentativi di portarlo ad un pubblico ludibrio), debba autorizzare la versione del costume di Superman post-Cavill, ma evidentemente una telefonata rivelatoria ha fatto comprendere a James Gunn che sì, quello dei mutandoni è effettivamente un problema che aveva tormentato anche il regista di Rebel Moon. Tra questioni rimuginanti, dubbi e volontà di cambiare l’estetica ritornando al classico, l’ispirazione è arrivata da David Corenswet, che ha spiegato a James Gunn di non voler far paura ai bambini attraverso la sua immagine. Certo, Superman è un alieno, è tecnicamente invincibile, lotta con personaggi provenienti da qualsiasi antro dell’universo e spara raggi laser dagli occhi, ma non può far paura ai bambini, che del resto costituiscono un folto quantitativo di pubblico per il futuro del DCU. La decisione di far indossare al Superman di David Corenswet dei mutandoni rossi, allora, richiama il mondo del wrestling in cui ci si fa male, si sanguina e ci si scontra sul ring, ma si è così tanto posticci nell’immagine e nell’estetica da provocare ilarità in chi guarda, soprattutto se si parla di pubblico pre-adolescenziale. Se una spiegazione di questo genere appartiene al novero delle “supercazzole”, però, non sta a noi dirlo: c’è piuttosto un’altra questione che merita una maggiore considerazione.
Regia, scrittura, narrazioni? No, costumi
C’è una deriva molto pericolosa nel cinema contemporaneo che viene rappresentata idealmente dal mondo dei cinecomics. Si badi bene, il discorso è realizzato ponendo qualsivoglia mano avanti: non c’è nessuna critica ai cinefumetti in quanto tali che non sono – almeno non necessariamente – il male di cui spesso vengono additati. La cultura dei cinecomics, dunque un discorso che si reindirizza agli spettatori e ai loro ragionamenti extra e post-film, però, è un qualcosa che sta conducendo sempre più verso un meccanismo di astrazione rispetto a quello che dovrebbe essere (almeno in fase germinale) il fulcro dell’attenzione quando si parla di cinema. Complice anche un meccanismo di disaffezione sintetizzato nell’espressione di superhero fatigue, il mondo dei cinecomics ha velocemente cambiato le sue regole nel corso degli anni, portando sempre più allo scoperto elementi che possano stimolare l’attenzione dello spettatore: se ci si fa caso, il mondo dei social è tempestato – negli anni e nei mesi che precedono l’uscita di un film al cinema – di cameo, riferimenti, volti noti, frasi, citazioni, spoiler, false o vere indiscrezioni e anticipazioni circa il film che si dovrà vedere. Di fatto, osservare quello stesso film non è più un modo per scoprirlo, quanto più un meccanismo per confermare (o smentire) le attese sull’eventuale presenza di questo e quello.
Gli stessi costumi fanno inevitabilmente parte del gioco: per Deadpool & Wolverine si è a lungo parlato del costume del secondo, che avrebbe omaggiato una specifica formula dei fumetti che non era mai stata portata sullo schermo e che faceva quasi raddrizzare il pelo allo spettatore medio vedere. Perché tutto questo? Certo è che i costumi non sono inutili nel mondo dei cinecomics: sono uno dei suoi fondamenti, una parte del tutto, uno degli ingredienti in grado di contribuire meglio alla caratterizzazione del personaggio che si vuole portare sullo schermo. Ma diventano, com’è giusto che sia in lavori squisitamente realizzati, una componente sì funzionale al racconto, ma non per questo trainante: l’inversione di tendenza osservata negli ultimi anni sembra invece mettere in primo luogo questo aspetto, in luogo di una componente che dovrebbe piuttosto essere preminente nel lavoro che viene realizzato. James Gunn, che è di fatto l’emblema di un processo artistico sempre perfetto nel mondo dei cinecomics, sembra esserne diventato vittima: ci ritroviamo allora di fronte al prodotto che darà vita ad un nuovo universo cinematografico, gestito e diretto da un validissimo regista di cinecomics per il grande (e il piccolo) schermo, su uno dei personaggi più iconici della storia della letteratura per bambini, adolescenti e adulti. Può mai davvero essere il suo costume un problema?
La polemica sui mutandoni rossi di David Corenswet sembra essere del tutto inutile e assurda, così come quella delle grinze sul vestito (il tanto osannato Christopher Reeve vestita pur sempre una calzamaglia) o del costume che sembra essere di una taglia in più. Anche solo polemizzare sul suo volto, e dunque su un principio di caratterizzazione estetica, sembra avere più senso: tutto ciò sembra allora essere figlio di una neo-cultura dell’immagine-social, che privilegia l’hic et nunc, il soddisfacimento istantaneo che soltanto un’immagine, un breve spezzone, un nome risonante, un “mappazzone” di superstar sa offrire. E intanto regia, sceneggiatura, narrazione e chissà cos’altro passano in secondo piano: fino a quando, si spera, il film non lo si vede davvero e si smette di chiacchierare del nulla.