Articolo pubblicato il 15 Gennaio 2025 da Alessio Minorenti
Esce nelle sale italiane giovedì 16 gennaio 2025, Wolf Man l’ultimo film del regista Leigh Whannell che vanta la produzione di Jason Blum. La pellicola è il secondo tassello del rilancio del Monster Universe che la Universal ha affidato al talentuoso produttore statunitense. Già L’uomo invisibile (2020) aveva fatto registrare un gran successo di pubblico e critica, prima di essere costretto a interrompere la sua corsa al box office a causa dello scoppio dell’epidemia globale di Covid-19. Il budget di produzione è di 25 milioni di dollari, una cifra contenuta se si tiene conto della portata dell’operazione, nonostante sia grandemente maggiore rispetto a quello di appena 7 milioni de L’uomo invisibile. A tal proposito: com’è Wolf Man? Di seguito la recensione del film.
La trama di Wolf Man, film diretto da Leigh Whannell
Wolf Man è l’ultima opera del regista australiano Leigh Whannell, un film che torna a esplorare l’universo narrativo dei mostri Universal che, a distanza di quasi 100 anni dalla prima volta, tornano a infestare gli schermi di tutto il mondo. Ma di cosa parla effettivamente il film? Segue la trama ufficiale di Wolf Man:
Il candidato al Golden Globe Christopher Abbott (Poor Things, It Comes at Night) interpreta Blake, marito e padre, che eredita la sua remota casa d’infanzia nelle zone rurali dell’Oregon dopo che suo padre è scomparso e si presume sia morto. Il matrimonio con la moglie Charlotte (la vincitrice dell’Emmy Julia Garner; Ozark, Inventing Anna) sembra essere ormai logoro e Blake convince Charlotte a prendersi una pausa dalla città e a visitare la proprietà con la loro giovane figlia, Ginger (Matlida Firth; Hullraisers , Coma).
Ma mentre la famiglia si avvicina alla fattoria nel cuore della notte viene attaccata da un animale invisibile e, in una fuga disperata, si barrica all’interno della casa mentre la creatura si aggira per il perimetro. Con il passare della notte, però, Blake comincia a comportarsi in modo strano, trasformandosi in qualcosa di irriconoscibile e Charlotte sarà costretta a decidere se il terrore all’interno della loro casa è più letale del pericolo all’esterno.
La recensione di Wolf Man, di Leigh Whannell e prodotto da Jason Blum
Non tutti i mostri resistono allo stesso modo alla prova del tempo e Leigh Whannell sembra averlo capito bene. Le paure collettive non si sviluppano secondo traiettorie lineari e nello specifico il cinema dei mostri ha vissuto fasi di alterne fortune negli ultimi decenni. A esclusione del vampiro, in questo senso da considerarsi come la creatura principe, quasi tutti i mostri Universal hanno finito lentamente per cadere nel dimenticatoio e per lo più i tentativi di riportarli alla ribalta sono stati fallimentari, culminando con l’orribile remake de La Mummia interpretato da un insopportabile Tom Cruise. E’ stato dopo aver raggiunto il fondo che la casa di produzione hollywoodiana ha deciso di affidare questo universo narrativo nelle sapienti mani di Jason Blum che, con incredibile facilità, già solo con due film pare aver raddrizzato la situazione.
Wolf Man infatti si inserisce nel solco che già si è cominciato a tracciare con L’uomo invisibile (2020) e riesce compiutamente a portare a termine un’operazione di svecchiamento dell’immaginario di riferimento della creatura in questione, rinnovandone l’estetica e sopratutto attualizzandone le tematiche. Queste due pellicole hanno come scopo primario quello di analizzare le paure e le fobie dei rapporti di coppia, adottando il punto di vista femminile. In questo caso specifico a dir la verità questo avviene soltanto a partire da metà film in poi quando (utilizzando un espediente caro al cinema classico americano e reso celebre da Hitchcock) si compie una transizione tra un protagonista e l’altro. Questo permette di far germogliare i semi che erano stati sparsi nella prima parte del film e che vedevano una madre costretta a mantenere la sua famiglia a New York e un padre sempre a casa con la loro bambina incapace di trovare una nuova occupazione (ribaltando sottotraccia uno stereotipo di genere molto diffuso specialmente nei film horror). La ricomposizione del rapporto madre-figlia sarà la colonna portante della narrazione, centrale fino all’ultima inquadratura. La donna assume in questa idea di cinema un ruolo che le è tradizionalmente estraneo nel cinema horror (eccezion fatta per lo slasher), ovvero quello di personaggio che deve trarre in salvo la famiglia, senza dover aspettare passivamente di essere liberate dalla presenza oscura. Questo punto di vista ideologico non è tuttavia fine a stesso ma serve a rinfrescare tutta una serie di dinamiche, ribaltandole e offrendo una prospettiva inedita. In questo senso il film lavora in profondità e con estrema attenzione sull’immaginario collettivo attuale, accogliendolo e non rigettandolo.
Il film però non funziona soltanto sul piano tematico ma anche dal punto di vista più prettamente orrorifico. Facendo svolgere l’opera per quasi tutta la sua interezza in una casa di campagna, Whannell ha vita facile nello gestire a livello registico gli spazi, creando in più occasioni delle situazioni di tensione affatto banali, giocando in modo molto intelligente con il sound design (la consapevolezza del protagonista della sua prossima trasformazione avviene acuendo uno dei suoi sensi in modo semplice ma efficace), riuscendo solo in parte invece a rendere accattivante il punto i vista del mostro, ricorrendo a un filtro molto intrusivo che anestetizza le immagini a schermo. In tal senso sarebbe stato più opportuno perseguire una scelta visivamente più elegante e meno intrusiva. Dove invece l’opera non fallisce è nella messa in scena del mostro vero e proprio che, grazie a qualche accorgimento prostetico, si rivela essere una minaccia temibile.
La Blumhouse continua con successo nella sua opera di restaurazione dell’immaginario dei mostri Universal con pellicole caratterizzate da budget ridotti ma idee numerose.