L’eredità di David Lynch

Non solo regista: David Lynch è stato un pittore, musicista ed artista a 360 gradi, tra i più influenti del XXI secolo. Ci ha lasciati il 16 gennaio 2025, lasciando un’eredità pesantissima.
Il regista David Lynch, scomparso il 16 gennaio 2025

Articolo pubblicato il 17 Gennaio 2025 da Gabriele Maccauro

David Lynch non c’è più. Regista, sceneggiatore, musicista, pittore: è stato un’artista a 360 gradi, uno dei più grandi ed influenti del XXI secolo le cui opere, già oggi, hanno superato la prova del tempo, divenendo immortali. È morto il 16 gennaio 2025, quattro giorni prima di compiere 79 anni. Inland Empire (2006) resta così il suo ultimo lungometraggio, mentre Twin Peaks: The Return (2017) il canto del cigno di un sognatore, che ha successivamente rilasciato diversi cortometraggi e videoclip, tra cui quello di Cellophane Memories di Chrysta Bell (2024), suo ultimo lavoro. 5 candidature ai premi Oscar, 4 ai Golden Globes, una Palma d’oro al Festival di Cannes e riconoscimenti alla carriera ricevuti sia dall’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences che dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: per quanto i riconoscimenti non determinino in alcun modo il valore dell’autore, allo stesso tempo si è trattato di attestati di stima che, negli anni, sono arrivati da ogni angolo del mondo. La sua eredità pesa come un macigno e le righe che seguono non vogliono far altro che omaggiare un gigante.

Chi era David Lynch: la carriera di un visionario

Nato a Missoula il 20 gennaio 1946, David Lynch inizia a capire di voler fare l’artista dopo aver conosciuto Toby Keeler, figlio del pittore Bushnell Keeler e vicino di casa della sua compagna dell’epoca. Questo incontro è fondamentale perché lo convince di poter fare della pittura il proprio lavoro e sarà determinante per la sua intera carriera d’artista. A vent’anni si trasferisce a Filadelfia per frequentare la Pennsylvania Academy of Fine Arts e nel 1967 realizza Six Men Getting Sick, primo di una serie di cortometraggi con cui Lynch inizia a fondere arti, libero di sperimentare e slegato da ogni tipo di preconcetto.

La lavorazione di Eraserhead, suo primo lungometraggio, è da subito in salita: progetto iniziato nel 1971, arriva nelle sale solamente sei anni dopo per via di enormi problemi finanziari che lo portano a perdere la propria casa e a dormire sul set. Nel 1980 Mel Brooks gli affida la regia di The Elephant Man, opera che viene candidata al premi Oscar e che si appresta a lanciarlo nello star system hollywoodiano. È in questi anni che viene contattato da George Lucas per dirigere Il Ritorno dello Jedi, terzo capitolo della storica trilogia originale di Star Wars. Un’offerta impossibile da rifiutare, o quasi: David Lynch non prende mai seriamente in considerazione la possibilità di accettare il lavoro e decide invece di imporsi lì dove Alejandro Jodorowsky fallì, ovvero nella regia un lungometraggio dedicato a Dune, tratto dall’omonima opera magna di Frank Herbert. Tagliuzzato e montato più volte, il film verrà rilasciato nel 1984 e sarà uno dei più grandi flop nella storia del cinema. Un fallimento doloroso ma necessario, perché libera totalmente il regista statunitense che non arretra di un passo e si rilancia, due anni dopo, con uno dei suoi più grandi capolavori.

Convinto delle proprie idee, David Lynch chiama nuovamente Kyle MacLachlan e gli affianca una leggenda come Dennis Hopper ed Isabella Rossellini, cui regala un ruolo iconico che porta però la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia a rifiutarlo dalla propria selezione in quanto offensivo nei confronti della memoria di suo padre Roberto. Poco male, perché Velluto Blu diventa presto una pietra miliare della cinematografia mondiale, segnando inoltre l’inizio della collaborazione con Angelo Badalamenti. Il mondo scopre così David Lynch e negli anni successivi egli realizza Twin Peaks, attraverso cui riscrive le regole della televisione ma sua creatura solo a metà in quanto modificata in corsa dalla distribuzione, impaziente di svelare chi fosse l’assassino di Laura Palmer. Nel 1992 realizza Fuoco Cammina con me, prequel della serie che si apre con un indimenticabile televisore che viene distrutto. Nel mezzo, Cuore Selvaggio (1990), presentato in anteprima al Festival di Cannes e vincitore della prestigiosa Palma d’oro. Il suo nome è ormai sulla bocca di tutti e ciò gli permette di realizzare Strade Perdute (1997) e Una Storia Vera (1999), da molti considerato – erroneamente – il meno lynchiano della sua filmografia.

Invitato a realizzare una seconda serie tv, ABC resta insoddisfatta dall’episodio pilota ma, grazie ad un finanziamento di Canal+, egli stravolge il progetto e ne tira fuori un lungometraggio. Mulholland Drive è così la sua prima opera del XXI secolo e viene nuovamente selezionato per il Festival di Cannes, dove si aggiudicherà il Prix de la Mise en Scène per la miglior regia e di cui si ricorda il siparietto con Nanni Moretti, che trionfò un po’ a sorpresa con La Stanza del Figlio. Lynch non smette però di innovare e sperimentare e nel 2006 dà vita a Inland Empire, opera realizzata senza seguire una vera sceneggiatura e con cui viene selezionato per la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che approfitta dell’occasione per attribuirgli un Leone d’oro alla carriera che mette una pezza sulla pessima figura di 20 anni prima. Per quanto sia ormai unanimamente considerato un’artista eccezionale, egli decide di fare un passo indietro, finendo per non dirigere mai più un lungometraggio. Tornerà solamente per rimettere mano alla sua amata Twin Peaks, chiudendo così un cerchio e realizzando, nel 2017, quella che si può tranquillamente definire come la più grande opera televisiva mai realizzata. David Lynch muore il 16 gennaio 2025, lasciando un’eredità pesantissima della cui portata, probabilmente, tutti si renderanno conto solamente tra qualche anno. Non c’è invece bisogno di aspettare per poter affermare che egli sia stato uno dei più grandi registi di sempre, un visionario ed esteta tra i più raffinati, mai compreso fino in fondo eppure amato da tutti e la spiegazione di ciò è chiara visionando le sue opere.

Laura Harring e Naomi Watts in Mulholland Drive (2006), diretto da David Lynch e presentato in anteprima al Festival di Cannes

Il valore delle idee: perché l’eredità di David Lynch è così pesante?

Quello descritto poc’anzi non è altro che un breve riassunto di una carriera che necessiterebbe certamente di più tempo per poter essere analizzata, soprattutto perché mai limitata ad un solo tipo d’arte e che anzi, si è sempre espressa in diverse forme. Non è però questo il luogo ed il momento giusto per discuterne, perché ciò che conta davvero, oggi, è capire cos’è che viene lasciato ai posteri. Il cinema di David Lynch è sempre stato considerato difficile, complicato ed incomprensibile. I suoi spettatori si sono sempre ritrovati a chiedersi quale fosse il senso delle sue opere, quale fosse la risposta alle tante domande sparse qua e là nei suoi lavori. Eppure, Lynch non è mai stato un uomo ed artista complicato in questo senso e lui stesso, in occasione di un incontro tenutosi a Roma nel 2006, ha spiegato il senso delle cose a chi un senso lo cercava, ovvero il pubblico che aveva appena visto Mulholland Drive. Per David Lynch, alla base del processo creativo – ma, potremmo dire, della vita stessa – c’è un’idea. Essa si evolve, gli si pongono al fianco parole, suoni, immagini che portano alla realizzazione di opere d’arte, ma questi sono passaggi secondari. Il centro di tutto resta però quella singola idea che, una volta trasformatasi, diventa impossibile da spiegare a parole. Sta dunque allo spettatore carpire le informazioni necessarie ed elaborare un proprio pensiero, alzando tra l’altro un dito medio nei confronti di tutti coloro che ancora tentato di etichettare e catalogare l’arte, come se ci fosse un’unica strada da percorrere, un pensiero comune da seguire.

Il cinema di David Lynch si è sempre fondato sulle emozioni, su una scintilla che si accende dentro ogni persona e che porta alle lacrime, alle risate, alla paura ed alla malinconia, alla nostalgia ed alla rabbia, in maniera diversa per tutti perché tutti sono/siamo diversi. L’obiettivo non dovrebbe dunque essere quello di cercare risposte, ma di comprendere le domande, non di omologarsi ma di ascoltarsi. In questo modo, non ha più nessuna rilevanza chi ha ucciso Laura Palmer o Dick Laurent o cosa rappresenta la scatola blu di Mulholland Drive. Lynch stesso ha sempre detto di non averne idea e non ne ha mai avuta una perché irrilevante. Ha sempre e solo contato suscitare delle emozioni, che sono ciò che lega ogni essere umano. Non importa l’età, l’estrazione sociale o il punto del mondo in cui si è nati: tutti siamo accomunati da questi sentimenti così intimi ed è così che egli è diventato, col tempo, una perfetta via di mezzo tra il cinema più autoriale, d’essai, arthouse ed il mainstream, blockbuster, la fusione tra elitario e popolare, con film estremamente contemporanei e moderni, che dureranno per sempre. Non ci sono limiti, non ci sono regole se non quelle del cuore ed è per questo che, come detto in precedenza, Una Storia Vera è un film che ha perfettamente senso nella sua filmografia e che si colloca alla perfezione al fianco di Eraserhead, Twin Peaks o Inland Empire.

Ora che è morto, David Lynch lascia uno spazio vuoto enorme che noi tutti siamo tenuti a colmare, insieme, abbracciandoci e comprendendoci, perché il suo cinema ha parlato a e di tutti noi, sempre. Lui non c’è più, ma l’arte è in grado di rendere immortali, trascendendo l’umanità e ponendosi su un piano spirituale, meno concreto e più astratto, certamente difficile da acciuffare ma alla portata di tutti. Se Inland Empire è stato il suo ultimo lungometraggio e l’urlo di Laura Palmer in Twin Peaks: The Return l’ultimo frame, l’ultimo Lynch su schermo è stato quello che ha ricoperto il ruolo di John Ford in The Fabelmans, dove Steven Spielberg gli ha messo in bocca parole che sembrano racchiudere un po’ l’essenza del suo pensiero e di queste stesse righe: quando l’orizzonte è in basso è interessante, quando l’orizzonte è in alto è interessante, quando l’orizzonte è in mezzo il film è noioso. Ecco, con David Lynch l’orizzonte è sempre stato nel punto giusto ed è anche per questo che, oggi, siamo tutti così tristi.

Sheryl Lee in una scena di Twin Peaks: The Return, diretta da David Lynch e presentata in anteprima al Festival di Cannes