Articolo pubblicato il 17 Febbraio 2025 da Bruno Santini
Ci sono film che intrattengono, altri che fanno riflettere, e poi ci sono quelli che scavano dentro lo spettatore, lasciando cicatrici invisibili. Anora di Sean Baker appartiene, se possibile, ad ognuna di queste categorie. Premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes e candidato all’Oscar come Miglior Film, Anora non è solo un racconto di una giovane donna in cerca di libertà, ma un’indagine feroce sulle dinamiche di potere, sull’illusione del riscatto e sulla crudele imprevedibilità dell’esistenza.
La protagonista, interpretata da Mikey Madison, è una giovane sex worker di Brooklyn che, in un colpo di testa, o di fortuna che dir si voglia, sposa Vanya, il figlio di un oligarca russo. Il sogno di una nuova vita si scontra ben presto con le imposizioni della realtà, quando la famiglia di lui interviene con tutta la violenza e il cinismo di chi può comprare qualsiasi cosa, tranne l’autodeterminazione di una persona. Baker non si accontenta di raccontare un dramma individuale, ma usa la storia di Anora per parlare di una società che mastica e risputa chiunque non si conformi alle sue regole. Un insieme di aspetti che determinano il motivo per cui il film di Sean Baker meriterebbe l’Oscar su tutti gli altri.
L’umanizzazione come condanna
Uno degli aspetti più interessanti di Anora, parte del motivo per cui il film di Sean Baker meriterebbe l’Oscar su tutti gli altri, è la sua capacità di dare profondità ai suoi personaggi senza mai renderli icone morali o vittime da compatire. Ani, questo il nome con cui si presenta a tutti, è fragile ma determinata, dolce ma spietata quando serve. Non è un simbolo, è una ragazza qualsiasi. Ma proprio questo processo di umanizzazione, che dovrebbe elevarla, finisce per trasformarsi in una trappola: più la sua umanità viene mostrata, più le forze che la circondano cercano di ridurla a un semplice ingranaggio di un sistema che non le concede via di fuga.
Nel mondo di Anora, essere visti per ciò che si è non significa trovare accettazione, ma esporsi a una violenza ancora maggiore. Il film esplora questo paradosso con un realismo disarmante, senza cercare facili catarsi, senza scadere nella retorica o in falsi pietismi. Non c’è un eroe che salva la protagonista, non c’è un deus ex machina che rimette tutto a posto. C’è solo la vita, che avanza implacabile, spesso senza offrire redenzione.
L’illusione del controllo
La protagonista, sin dall’inizio, sembra convinta di poter gestire il proprio destino: sceglie di sposare Vanya, immagina una via d’uscita dalla precarietà, prova a mantenere il controllo della sua esistenza. Ma ben presto scopre che il mondo non funziona così. Ogni tentativo di autodeterminazione si scontra con forze più grandi di lei: la famiglia di Vanya, le dinamiche del potere, il giudizio sociale.
Baker mostra con estrema lucidità quanto il concetto di controllo sia spesso solo un’illusione, soprattutto per chi proviene da contesti di marginalità. Ani può prendere decisioni, ma non può determinarne le conseguenze. Il film smonta il mito dell’individuo che si fa da sé, smonta l’illusione della storia d’amore a lieto fine, rivelando quanto il destino sia spesso influenzato da fattori esterni e implacabili.
Un finale che perseguita lo spettatore
Il finale di Anora è un’autentica, inaspettata doccia fredda. Baker rifiuta qualsiasi conclusione netta, lasciando la storia sospesa in un limbo di possibilità. Il viaggio della protagonista non porta a una liberazione vera e propria, ma a una consapevolezza dolorosa: la libertà non è qualcosa che si ottiene con una semplice scelta, ma un concetto fragile, soggetto alle dinamiche di classe, potere e fortuna. L’esperienza segna in maniera indelebile, annulla anche i sentimenti più puri, arrivando a rendere inaccettabile anche un semplice gesto di affetto.
Ani cambia, cresce, ma il mondo attorno a lei resta lo stesso. Lo spettatore non sa se sperare o disperarsi, se immaginare un futuro diverso per lei o rassegnarsi alla sua inevitabile sconfitta. Ed è proprio questo senso di irresolutezza che rende il film tanto potente: la vita non offre risposte semplici, e Anora ci costringe a fare i conti con questa scomoda verità.
Perché Ani non verrà dimenticata
Alcuni film conquistano il pubblico con grandi storie epiche, altri invece lo segnano nel profondo con dettagli apparentemente minimi, ma devastanti. Anora è uno di questi ultimi: Sean Baker realizza un’opera necessaria, che non si limita a raccontare una vicenda, ma la usa come specchio per riflettere sulle ingiustizie sistemiche e sulle illusioni che ci raccontiamo per sopravvivere.
Non è solo la regia impeccabile o la straordinaria performance di Mikey Madison a rendere il film memorabile. È la sua capacità di insinuarsi sotto la pelle dello spettatore, di porre domande senza ergersi a custode della verità, di trasformare una storia individuale in una riflessione universale. In un panorama cinematografico spesso dominato da narrazioni sicure e prevedibili, Anora è un autentico grido di ribellione: ciò lo rende non soltanto il favorito a vincere l’Oscar come miglior film, ma anche quello che lo meriterebbe davvero su tutti gli altri.
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