Articolo pubblicato il 18 Febbraio 2025 da Bruno Santini
Nel San Valentino del 2025 la piattaforma di Apple TV+ ha accolto un nuovo ambizioso progetto, che vede Scott Derrickson (Doctor Strange, Black Phone) dietro la macchina da presa e Anya Taylor-Joy e Miles Teller protagonisti, affiancati da Sigourney Weaver in uno dei ruoli principali all’interno del film; stiamo parlando di Misteri dal profondo (The Gorge), un’opera che dialoga con la fantascienza su più livelli e che, di fatto, genera tre film in uno. Per chi scrive, trattasi di un’opera fallimentare che pur nella sua frammentazione interna non riesce ad ottenere il risultato sperato, trasformando di fatto le tre parti proposte in tre difficoltosi – e a tratti orribili – momenti differenti: ma cerchiamo di comprendere maggiormente questo tema attraverso la recensione di Misteri dal profondo.
Poesia e faccette nella prima ora di Misteri dal profondo
Levi e Drasa sono due persone che, per motivi differenti, presentano delle incredibili capacità con il cecchino ma sono emotivamente isolate dal resto del mondo, senza alcun tipo di legame o con rapporti che sono pronti a finire. Per questo motivo vengono scelti per far parte di un programma segreto di sorveglianza di una gola, non per evitare che qualcuno entri in quest’ultima ma per fermare tutto ciò che vuole fuoriuscire: è questo, sostanzialmente, il motore della narrazione di Misteri dal profondo, che in effetti di misterioso ha anche l’approccio non dichiarato nel trailer e nelle immagini promozionali del film. Chi si aspettava – come, a dire il vero, chi scrive – un film che dialogasse sì con il genere horror ma che ragionasse anche a proposito del non detto, dei silenzi e di possibili rapporti che sapessero svilupparsi nonostante distanze difficili da sostenere, probabilmente è rimasto stupito nel comprendere che l’impianto classico della trama sopracitata dura all’incirca 50 minuti, prima di essere totalmente sconvolto. E non è, questo, di certo un elemento positivo.
Ma proseguiamo con ordine: il film non compie una scelta sbagliata nell’affidare ai due volti di Miles Teller e Anya Taylor-Joy i ruoli dei protagonisti, con un’interrelazione a distanza che, per certi versi, potrebbe anche convincere rispetto al rapporto che si genera tra i due protagonisti. Il tema della gola, del male profondo che proviene da essa e di quella “porta per l’inferno” che viene inizialmente declamata è interessante, se lasciano ad elemento di margine del lungometraggio: così, il focus si sposta sull’azione dei due protagonisti, che tentano di comunicare e mettersi in rapporto nonostante sia loro espressamente vietato, con un effettivo scambio di messaggi e utilizzo dei binocoli che nella sua funzione potrebbe anche sembrare visivamente accattivante. Probabilmente, l’elemento più convincente di questa prima parte del film risiede nell’adozione del silenzio (che certo ha necessario bisogno di essere smorzato di tanto in tanto, soprattutto con i vinili di Drasa), che riesce a comunicare lo stato di cose di due persone che, nei fatti, sono sole. Il ricorso alla poesia, con frequenti citazioni a T.S. Eliot e Sartre, sottende a quella volontà di conferire un’impronta “alta” ad un mondo che non ha necessariamente bisogno di esserlo: in una messa in scena ideale, ma sicuramente più complessa rispetto agli intenti e agli effetti addetti ai lavori scelti, Misteri dal profondo avrebbe potuto costituire una grande narrazione sull’assenza di suono artificiale, nell’immergersi totalmente in un circostante in cui la lotta per la sopravvivenza è sì necessaria, ma anche confinante rispetto alla vera lotta dei due protagonisti, ovvero la capacità di gestire il contatto con se stessi per 365 giorni.
Invece, e anche per effetto di quel romanticismo che viene inserito come da etichetta, il dialogo tra i due inizia ad essere sempre più goffo, tra dialoghi davvero terribili (e su questi si ritorna successivamente) e faccette filtrate attraverso un binocolo che non solo non appaiono minimamente verosimili, ma sembrano anche terribilmente fuori forma rispetto all’effettivo rapporto che si stabilisce tra i due. Tanto che l’effettiva domanda, a voler scavare di più, diventa relativa a quanti blocchi di fogli riesca ad avere Drasa, utilizzandone uno nuovo per ogni dialogo. Lo stesso contatto fisico tra i due (che non necessariamente è un problema dato gli intenti del film) avviene troppo semplicemente e frettolosamente, così come la dinamica di un rapporto che si sviluppa con estrema superficialità in tutte le sue parti.

Tra spara-tutto e spy story: perché sprecare tutto così?
Se ciò che veniva detto precedentemente poteva sembrare abbastanza, purtroppo bisogna ammettere che condensa soltanto i primi 50 minuti di un film che ne dura 127 e che, dalla seconda parte in poi, prende una rotta totalmente differente. Lo si ribadisce in sede di recensione: Misteri dal profondo, almeno nella sua concezione iniziale, non era certamente un film perfetto, ma pur nella sua insufficienza riusciva ad essere un prodotto in grado di comunicare qualcosa, nonostante ci fosse la possibilità di rendere questo discorso molto più curato sullo schermo. L’esigenza di offrire allo spettatore, necessariamente, una materia che peschi a piene mani nello sci-fi (e siamo davvero sicuri che la collocazione così tardiva abbia evitato, agli stessi spettatori a cui ci si vuole rivolgere, di abbandonare prima il film?) si ritrova in una seconda parte goffa, raffazzonata, per lunga parte ridicola nella sua messa in scena ed esageratamente intrisa di elementi totalmente sconnessi l’uno all’altro. La caduta nella gola di Levi e Drasa offre il destro per una rappresentazione post-apocalittica di quel mondo da cui fuoriescono gli esseri che erano stati precedentemente osservati, probabilmente il reale punto di forza di un film che riesce a costruirli comunque in maniera visivamente molto interessante, data l’unione tra il DNA umano e quello della vegetazione e degli animali che crea degli esseri che sembrano ricordare gli Estranei di Il Trono di Spade o ancora i Clicker di The Last Of Us.
A proposito di quest’ultimo modello, è impossibile non notare le costanti citazioni al celebre videogioco nella rappresentazione scenica della città in cui i due protagonisti tentano di salvarsi all’interno della gola: non sappiamo se sia un bene o un male, ma la forza ispiratrice di The Last Of Us si nota ormai costantemente, in qualsiasi prodotto che voglia dialogare con il post-apocalittico, talvolta (e purtroppo) scimmiottandone le formule e adagiandosi su elementi estetici di fatto già creati. Se per la resa estetica dei mostri c’è un qualcosa di buono, si diceva, non si può dire lo stesso della cura delle scenografie, decisamente troppo piatte e vuote – con un solo cambio di luci di tanto in tanto, quasi a voler creare dei dungeon in cui affrontare gruppi diversi di nemici -, così come vuoto è il procedere dei due. Si accennava precedentemente alla povertà dei dialoghi e si cita uno scambio di battute per rendersi conto del livello presentato nel film: “Si direbbe un evento sismico / Sì, un terremoto”. È pur certo che il tema della parola non sia centrale all’interno del film ma, quando ci si affida ad essa, è incredibile notare come sia sempre un qualcosa di estremamente fallimentare; il lungometraggio si risolve con numerosi momenti di spara-tutto (il genere videoludico preferito di Derrickson) e con un accenno ad una spy story che coinvolge il (debolissimo) personaggio di Sigourney Weaver e con il più classico dei lieto fine che, anche in questo caso, avrebbe potuto avere un trattamento in qualsiasi modo differente. Davvero poca cosa per una produzione originale di Apple che coinvolgeva così tanti nomi e che getta tutto in un mare magnum di vuoto – e non di uomini vuoti – e mediocrità, tanto che (forse) è arrivato il momento di iniziare a discutere circa le effettive capacità dietro la macchina da presa di Scott Derrickson.
Altre notizie su: Misteri dal profondo