Distribuito nelle sale cinematografiche francesi col titolo originale Belle, mentre in quelle italiane a partire dal 13 marzo 2025, grazie a Europictures. Alla regia è stato ingaggiato Benoît Jacquot (Eva), come protagonisti della vicenda invece figura la coppia formata da Guillaume Canet (Sette uomini a mollo) e Charlotte Gainsbourg (Nymphomaniac). Ma qual è il risultato de Il caso Belle Steiner? Di seguito la trama e la recensione del film.
La trama de Il caso Belle Steiner, il film di Benoît Jacquot
Prodotta da Ciné@, in collaborazione con Macassar Productions, la pellicola è la trasposizione del romanzo di Georges Simenon, pubblicato nel 1952 e intitolato La morte di Belle. Ma di cosa parla quindi Il caso Belle Steiner? Di seguito la trama ufficiale del film diretto da Benoît Jacquot:
“Pierre e sua moglie Cléa conducono un’esistenza tranquilla in una piccola città di provincia. Lui è un insegnante, mentre lei gestisce un negozio di ottica. La coppia ospita Belle, la figlia di un’amica. La loro vita viene completamente stravolta quando la ragazza viene trovata morta nella loro casa. Poiché Pierre era l’unico presente nell’abitazione al momento della tragedia, diventa l’unico sospettato. Subisce interrogatori umilianti dalla polizia, l’ostracismo dei colleghi e l’ostilità dei residenti della cittadina, dove tutti sanno tutto. Perché la domanda sulla bocca di tutti è la stessa: chi ha ucciso belle?“

La recensione de Il caso Belle Steiner, con Charlotte Gainsbourg
In tutte le democrazie degne di tale nome, il potere giudiziario è indipendente e uguale per tutti, avendo come punto di partenza la cosiddetta presunzione d’innocenza garantita ad ogni cittadino, in cui è l’accusa ha il dover provare oltre ogni ragionevole dubbio la presunta colpevolezza di un imputato. Tale presunzione dovrebbe partire già dalla fase d’indagine, prima ancora di quella processuale, ma il condizionale è d’obbligo poiché all’atto pratico la situazione prende sempre una piega assai diversa. Dal punto di vista mediatico e sociale, basta essere accusati di qualcosa o anche solo essere coinvolti indirettamente per subire l’ostracismo generale, dovuto magari alla somma di circostanze approssimative, considerate sufficienti per appiccicare una pericolosa e quasi indelebile etichetta.
Questi sono gli argomenti da cui parte la pellicola diretta da Benoît Jacquot, una denuncia narrativa a proposito di come la società di oggi s’interfaccia e gestisce i casi di cronaca nera, sotto diverse prospettive: dal modo in cui si svolgono le indagini all’interessamento più o meno nocivo della televisione, fino ai rapporti personali. Purtroppo, anche in questo caso occorre utilizzare il condizionale passato, a causa della mancanza del film di sfruttare la possibilità di realizzare un’opera in grado di mettere in condizione lo spettatore di fermarsi a riflettere su una situazione ben riconoscibile nella vita di tutti i giorni.
Per prima cosa non si percepisce abbastanza il dramma di un uomo innocente messo sotto indagine per omicidio, con tutto ciò che ne consegue; arrivano a mo’ di eco le reazioni della gente a lui vicino, sia nella vita privata sia sul luogo di lavoro, cosicché lo sviluppo risulta alquanto blando, senza tensione e senza pathos, lasciando il pubblico in balia di una colpevole indifferenza. La sensazione è che si stia assistendo ad un’introduzione di novanta minuti, rimanendo in attesa di un crescendo che possa portare al dunque (non pervenuto), ed invece l’assenza di climax lascia tutto in superficie, palesando il fatidico “vorrei ma non posso” da cui si esce perplessi, vista soprattutto la base di partenza letteraria solida come quella di Georges Simenon.
Se il lungometraggio fallisce nella sua parte da “giallo”, quantomeno diventa interessante nello scavare la personalità del protagonista e il suo contesto domestico: l’aspetto su cui si pone l’accento è il suo non manifestare le proprie emozioni, nonostante si trovi nell’occhio del ciclone e che dentro le sue mura sia avvenuta una disgrazia così dolorosa. La questione emozionale è un fattore determinante per l’opinione pubblica nel valutare l’innocenza o la colpevolezza della persona coinvolta, come se fosse scontato dover manifestare platealmente quello che si ha dentro, mentre al contrario, non farlo sarebbe considerato prova ulteriore di coinvolgimento nell’atto criminoso.
Guillaume Canet è chiamato a lavorare di sottrazione, mantenendo quasi la stessa espressione per quasi tutta la durata, fungendo da caratterizzazione di un personaggio insoddisfatto della sua vita, chiuso ormai in un rapporto di coppia senza più nulla da dire, incline a piccoli vizi custoditi nella sua intimità. Il finale si pone l’obiettivo di seminare ancora più ambiguità in lui, ma ancora una volta la messa in scena non si rivela adeguata, cadendo rischiosamente nella confusione nel voler lasciare libera interpretazione a chi sta guardando. Conclusione forse summa ideale del prodotto generale proposto, ovvero una grande occasione persa.