Articolo pubblicato il 28 Marzo 2025 da Vittorio Pigini
Presentato in anteprima al Sundance Film Festival e distribuito anche in Italia dal 27 marzo, Opus – Venera la tua stella è il primo film scritto e diretto da Mark Anthony Green. Il film si presenterebbe come un thriller psicologico, arrivando tuttavia agli effettivi connotati del folk-horror, per una speciale riflessione antropologica sulla scelta dei nostri leader politici e spirituali. Opus vede come protagonista Ayo Edebiri, la giovane rivelazione della serie di successo The Bear, accompagnata dal veterano John Malkovich. Ecco di seguito la recensione di Opus – Venera la tua stella, l’opera d’esordio di Mark Anthony Green.
La trama di Opus – Venera la tua stella, il film horror con John Malkovich
Su sceneggiatura originale dello stesso regista, Opus – Venera la tua stella è il primo film di Mark Anthony Green, distribuito nelle sale da A24. Il film vede come protagonista la giovane giornalista Ariel, afflitta dai soliti lavoretti d’ufficio ed in attesa dell’occasione che possa svoltare la sua carriera. Detto fatto e questa occasione diventa il ritorno sulle scene, dopo 30 anni, della superstar del pop Alfred Moretti. In occasione di questo evento, lo stesso Moretti ha organizzato un weekend nel suo complesso nello Utah, invitando pochi e selezionati ospiti per far ascoltare in esclusiva il nuovo album, con questa musica che promette di essere un qualcosa di mai ascoltato prima.
Vengono così invitati un conduttore radiofonico, una conduttrice di talk-show, una paparazza, un’influencer di successo e, a sorpresa, proprio la giovane Ariel assieme al suo caporedattore. Quello che sembrerebbe essere un’occasione irripetibile ed un lussuoso evento esclusivo, si trasformerà ben presto per Ariel in un’esperienza da incubo, con la situazione pronta a degenerare.

La recensione di Opus – venera la tua stella: mistero dell’idolatria
In arrivo dal Sundance di quest’anno ecco che approda in sala, distribuito dal marchio di fabbrica A24, il primo film scritto e diretto da un nuovo regista, Mark Anthony Green. Nonostante sia un’opera prima, già dall’incipit di questo nuovo film appare un qualcosa ancora fresco nella mente cinematografica del marzo 2025. Molti sembrerebbero, almeno inizialmente, i punti di contatto tra Opus e il Blink Twice di Zoë Kravitz, approdato in Italia solo qualche mese fa: il personaggio protagonista, la star/magnate che dopo tempo torna in pista organizzando un evento esclusivo nella propria tenuta, il comfort in contrasto con un ambiente asfissiante e sì, il ritiro dei cellulari all’ingresso (sempre più sdoganata come usanza per ridurre al minimo i buchi di trama).
Sempre e comunque attraverso le solite “pinze”, i punti di contatto terminerebbero qui, con Opus che piano piano comincia a spostarsi invece verso la direzione del folk-horror Midsommar. Lontano dalla tecnologia, dalla modernità e dedito al lavoro artistico e al senso di comunità, ecco che nell’opera d’esordio di Mark Anthony Green si parla la lingua della setta religiosa. Ma qual è il culto professato? Qui il film inizia a mettere a segno la sua affascinante analisi sociale ed antropologica, sicuramente non nuova specialmente in questo particolare “campo da gioco”, ma comunque esaltante.
La “lezione” di Opus, o meglio del leader spirituale a capo di questa speciale comunità, è che nel mondo animale e per gran parte della storia dell’uomo a dominare sono sempre e stati solo i muscoli, la legge del più forte, della natura. Poi si è passati allo step successivo dell’abbinare la forza al sangue, creando nobili linee ereditate ed inscalfibili. In epoca più prettamente moderna si assiste invece al trionfo delle democrazie (sia come identità politica sia come ideologia culturale), dove a comandare non sono più i più forti ed i nobili, bensì colore che dimostrano di essere tanto abili, astuti ed ingannatori nel parlare e nel muoversi politicamente da soggiogare le masse. Il risultato? In nemmeno un secolo di storia si arriva a ben 2 conflitti mondiali (e mezzo), guerre civili e non sparse in ogni dove, il pianeta al collasso climatico, voragini dal punto di vista sociale, culturale ed umanitario.
Servirebbe una nuova evoluzione, un nuovo Livello di crescita. E se a governare la razza umana non fossero i più forti, né i più intelligenti, ma gli artisti, i cretori di bellezza, gli Dei in terra? Il Livello di Opus porta così avanti questo giusto equilibrio non nell’illusione che siamo tutti uguali, ma nella consapevolezza che non siamo tutti uguali. Il genere umano deve infatti ringraziare i vari Michelangelo, Leonardo Da Vinci, Tina Turner per non essere persone come le altre, avere un qualcosa dentro che possa dare alla razza umana uno scopo, una ragione ed un modello per elevarsi dal mondo animale. Come ostriche restiamo degli involucri, qualcuno ha una perla rara all’interno e molti altri no.
L’artista, il creatore di “bellezza” (tanto l’autore di un disco quanto l’inventore del ferro di cavallo millenni fa), diventa anche solo per un momento un vero e proprio Dio in terra, per aver creato un qualcosa che solo lui può fare. Soprattutto in epoca social, non si è poi così distanti da questa realtà, dove i c.d. influencer posseggono già la loro lista di seguaci e fedeli, spostando le masse tanto nell’ideologia quanto nel concreto. Ma cosa accadrebbe se quegli stessi influencer, se quei leader e custodi di una “perla”, fossero degli assassini, dei criminali? La gente continuerà a seguire e “venerare” (come inutile sottotitolo italiano del film) quella stessa divinità? Sì.
Con tale risposta affermativa secca, estrapolata dal finale di Opus, si chiude un’analisi dal potenziale interessante ed affascinante, ma che ritrova nell’atto conclusivo del film una piattezza argomentativa fatale. L’opera prima di Mark Anthony Green riesce a costruire piano piano una tavola rotonda dai diversi spunti, facendo emergere un quadro inquietante sulla crisi della società contemporanea, ma che non riesce mai a sferrare il colpo decisivo. Oltre alla piega action non richiesta (stona di fatto con la costruzione atmosferica fino a quel momento) e l’anticlimaticità narrativa, è proprio nel finale che Opus si blocca, non riuscendo ad andare oltre le suggestive premesse.
I punti interrogativi rimasti in sospeso non sono pochi e, nonostante il tempo per lo “spiegone” ampiamente concesso, non si arriva a chiudere il cerchio. È lo stesso personaggio interpretato da John Malkovich ad ammonire Ariel sul fatto che stia girando intorno all’unica domanda che dovrebbe e vorrebbe porre. Alla fine di Opus lo spettatore arriva così a porsi quella domanda: e quindi? La risposta è un buco nell’acqua, niente che non fosse già stato mostrato durante la visione e che non fosse già circolato in molti altri titoli solo nel periodo recente.
Le note stonate di una musica ipnotica
Quello che sembrava mostrarsi quindi come un folk-horror, che facesse del suo corpo spirituale l’arma perfetta per sferrare una critica alla società contemporanea, si rivela insipido, piatto e banale come non si sarebbe dovuto permettere. Tuttavia, si parla in tal caso più di un’occasione persa che una vera e propria caduta di stile, con i punti critici nella sceneggiatura del film che risiederebbero altrove. Oltre alle falle della struttura narrativa, già di per sé priva di originalità e con qualche forzatura di troppo (come Ariel viene scelta e selezionata non ha senso sotto nessun punto di vista), Opus abbandona completamente quella che sarebbe potuta essere la sua arma vincente, ovvero la musica.
Questa sarebbe potuta infatti essere un elemento determinante, anche in termini di analisi sull’Arte e sul ruolo delle star, ma alla fine non diventa mai protagonista e solo un mero accessorio. La forza anche “ipnotica” della musica di Moretti enfatizzata fin dall’inizio del film, arriva a non essere più indispensabile e viene abbandonata completamente. Altro aspetto critico di Opus risiede poi sui suoi personaggi, non tanto nei due protagonisti (ai quali si arriverà a breve), quanto sui tanti comprimari di contorno. Nel cast del film si registrano infatti i nomi di Juliette Lewis (con l’attrice di Cape Fear – Il promontorio della paura ed Assassini nati ancora in attesa di tornare alla ribalta dopo il boom degli anni ’90), Murray Bartlett (The White Lotus), Amber Midthunder (Prey, Avatar – La leggenda di Aang) e molti altri.
Nessuno di questi, tuttavia, riesce a spiccare non solo per proprie caratteristiche ma anche per il peso narrativo all’interno del racconto. Se tali personaggi risultano quindi un’inutile aggiunta di spezie al brodo, l’attenzione resta comunque focalizzata sui due personaggi protagonisti. Sotto i riflettori soprattutto per la serie di successo The Bear, Ayo Edebiri sta continuando a costruire anche la sua immagine cinematografica, per un ruolo da protagonista qui non proprio memorabile ma convincente. A rubare la scena è poi ovviamente il veterano John Malkovich, che continua a rimanere ben in attività attraverso qui un personaggio sufficientemente grottesco, tanto inquietante quanto ammaliante.
Ciò che convince davvero in Opus è proprio il giusto equilibrio, ricercato anche dalla stessa setta del Livello, tra umorismo ed esperienza disagiante (in senso positivo). Senza eccellere in un aspetto in particolare, il film riesce infatti fin da subito a restituire un’esperienza alquanto bizzarra, stravagante e con il regista che alla sua opera prima dimostra una ferma mano nella messa in scena. Sollecitando un orrore suggerito, che riesce ad esplodere in qualche momento ben eseguito, ogni movimento della macchina da presa riesce a valorizzare la scena, con il bel contrasto cromatico ed il comparto sonoro che introducono sequenze oniriche ed ipnotiche dall’efficace effetto.
In conclusione Opus introduce nel mondo cinematografico un nuovo regista, che dimostra di essere in possesso di qualità soprattutto tecniche interessanti e che offrono buone sensazioni per il futuro. Nonostante però il potenziale, il film presenta una sceneggiatura che si rivela essere un buco nell’acqua, specialmente per le aspettative create proprio durante la visione stessa. Un folk-horror, travestito da thriller psicologico che tuttavia tiene vivo un sottogenere che continua a trovare terreno fertile.