La misteriosa epidemia delle immagini di ChatGPT in stile Studio Ghibli

Negli ultimi giorni spopola un trend che porta a generare delle immagini in stile Studio Ghibli con ChatGPT: ma che cosa sta succedendo ed è, effettivamente, un problema?
La misteriosa epidemia delle immagini di ChatGPT in stile Studio Ghibli

Articolo pubblicato il 29 Marzo 2025 da Bruno Santini

Uno degli elementi al contempo più affascinanti e preoccupanti, nel contemporaneo mondo dei social, è il concetto di trend: non che la tendenza sia un qualcosa che questi new media abbiano inventato, ma il costrutto dell’instant content è prettamente attuale. Detto in termini semplici e senza lanciarsi necessariamente in un’opera troppo complessa dal punto di vista sociologico, parliamo di fenomeni che nascono, conoscono il loro apogeo e si esauriscono nello spazio di pochissimi giorni, talvolta addirittura in un numero esiguo di ore. Uno degli ultimi trend che stiamo osservando massivamente – e che ancora una volta ingloba il cinema tra le sue fila architettoniche – riguarda lo Studio Ghibli, e in particolar modo la generazione di immagini da parte di ChatGPT in stile Studio Ghibli. Un’epidemia che in molti si affrettano a definire disgustosa, parafrasando lo stesso Miyazaki, e che ancora una volta genera uno scontro tra chi considera l’intelligenza artificiale il male del nostro tempo e chi ne tollera le forme di utilizzo.

Che cos’è il trend di immagini generate con ChatGPT in stile Studio Ghibli

Per concretezza e per spiegare le ragioni del fenomeno con cui ci confrontiamo negli ultimi giorni, tentiamo di rispondere innanzitutto a una domanda: che cos’è il trend di immagini generate con ChatGPT in stile Studio Ghibli? Tutto nasce nel momento in cui la proprietà di generare immagini con intelligenza artificiale, prima appannaggio soltanto di piani premium e di sistemi di IA a pagamento, diventa gratuita: con l’aggiornamento della nuova versione, ChatGPT offre la possibilità di generare immagini con qualsiasi prompt, in qualsiasi lingua, ottenendo il soggetto richiesto pressoché nell’immediato.

Dal momento che la forma del trend è, tutto sommato, un oggetto di imitazione (o comunque di rimodellamento di una medesima forma), quella dello Studio Ghibli è diventata una tendenza praticamente immediata. Se si chiede a ChatGPT cosa rende un’immagine in stile Studio Ghibli tale, si ottiene come suggerimento una serie di caratteristiche tecniche: Volti morbidi e rotondi, con occhi grandi e luminosi, Capelli disegnati con cura, spesso mossi o leggermente spettinati, Paesaggi naturali lussureggianti: foreste, colline, campi di fiori, Palette di colori pastello e tonalità calde, Elementi surreali o fantastici spesso si fondono con la vita quotidiana, Creaturine spiritose e personaggi misteriosi. Ne consegue che, utilizzando qualsiasi immagine e richiedendo di trasformarla in stile Studio Ghibli, si ottenga un’immagine che richiama molto fedelmente quelle che siamo abituati a osservare in film dello stesso Miyazaki, ma non solo, e dal momento che questi prodotti sono universalmente noti e (nella maggior parte dei casi) anche tendenzialmente ritenuti come nobili, si crea quel cortocircuito relativo agli effettivi ambiti di utilizzo dell’intelligenza artificiale.

Perché le immagini AI in stile Studio Ghibli sono così odiate da tutti?

Cerchiamo di ragionare un po’ a ritroso e di riportare alla memoria alcuni elementi che hanno dominato i trend degli ultimi anni, anche in campo cinematografico. Per qualche periodo TikTok e gli altri social sono stati invasi da una tendenza a estetizzare i propri video in stile Wes Anderson (con effetti più o meno riusciti), che consisteva sostanzialmente nell’utilizzare un tema standard, immagini simmetriche e colori pastello. Certo, si potrebbe obiettare che in quel caso non c’era nulla di prodotto se non con un intervento manuale nella disposizione di oggetti e forme, ma si potrebbe rispondere che anche l’applicazione di un filtro risponde alle medesime logiche di intelligenza artificiale generativa – in questo caso di colori, sfumature ed effetti di luce – che vengono avvicinate ad un prodotto creativo.

E ancora, in un altro periodo è spopolato il trend di Run Boy Run di Woodkid, che consisteva – servendosi di un modello preimpostato su Capcut – di disporre una serie di immagini a tempo di musica, seguendo il ritmo serrato della canzone. In quel caso l’intelligenza artificiale, o comunque la forma della preimpostazione generativa, sostituiva i montaggi individuali di qualsiasi utente che si limitava semplicemente a disporre delle immagini in caselle da riempire, con tempistiche già create. Per non parlare dei filtri di Written and Directed by Quentin Tarantino, più noti su Instagram, che stoppavano qualsiasi video con la riproduzione di Misirlou e uno sfondo che replicava i celebri titoli di coda dei film del regista: insomma, applicare l’intelligenza artificiale ad un elemento creativo non è un dato recente, ma suscita attualmente più scalpore di quanto potesse fare in passato.

Ma per quale motivo? La realizzazione delle immagini in stile Studio Ghibli segue una tendenza attuale che porta ChatGPT, e tutti i sistemi di AI, ad essere molto più protagonisti di quanto non fosse in passato, in un clima di fervente cambiamento contenutistico non totalmente inedito come si potrebbe pensare. Ogni guerra e scontro ideologico particolarmente marcato muove i suoi passi da una forte rivoluzione alle spalle, per cui non c’è (contenutisticamente parlando) nessuna differenza tra ciò che ChatGPT genera, in termini di risposta collettiva, e ciò che l’automobile in un periodo di carrozze costituiva nel secolo scorso. C’è, ed è naturale che sia così, una certa ritrosia nel considerare che un elemento di contemporaneità possa sovvertire una realtà precostituita, tanto in termini economici quanto di interrelazioni sociali: vivere un cambiamento di paradigma strutturale spaventerebbe sostanzialmente chiunque, soprattutto se ad essere messi in gioco sono aspetti che non interessano soltanto l’arte, ma anche il diritto d’autore, la facoltà professionale, la capacità creativa e tanto altro ancora. Ma qual è il confine?

Fin dove l’intelligenza artificiale è tollerabile?

Si parla di intelligenza artificiale da molto più tempo di cui si potrebbe immaginare, e il dibattito che sembra attuale affonda le sue radici in un clima di cambiamento – soprattutto scientifico – molto radicato. Per certi versi, possiamo far risalire questo tema alle speculazioni filosofiche di Blaise Pascal, o più di recente alla creazione della Placca dei Pioneer, quello strumento che aveva la presunzione di comunicare (per mezzo di qualche figura stilizzata) gli elementi-cardine della civiltà umana ad un’eventuale società extraterrestre. Più che parlare di sistemi di AI, in effetti, sarebbe più corretto parlare di comunicazione ed effettiva proprietà artistica dell’intelligenza artificiale: servirsi di ChatGPT per generare un prodotto artistico è, effettivamente, un’opera d’arte o meno? Senza scomodare il tema platoniano della mimesis e dell’arte come imitazione dell’imitazione, tentiamo ancora una volta di fornire delle coordinate a proposito di un fenomeno non più, francamente, ignorabile.

Nel momento esatto in cui il montatore di The Brutalist ammette che il film si è servito di intelligenza artificiale per correggere i difficili accenti ungheresi di Adrien Brody e Felicity Jones, nascono le polemiche che hanno – come oggetto fondamentale – la pretesa di artificiosità dell’opera, e per questo motivo (e immaginiamo che questo discorso abbia sfiorato più di un votante dell’Academy) si inizia a invalidare l’intera impalcatura estranea all’IA stessa, tanto da portare alcune persone a chiedersi: ma non si potevano scegliere attori ungheresi per il film? E ancora, quando Paul Schrader afferma che servirsi di ChatGPT per scrivere sceneggiatura alla maniera di Martin Scorsese o qualsiasi altro regista, nascono polemiche relative al fatto che il mestiere dello sceneggiatore non può essere messo a rischio in luogo di una certa pigrizia di addetti ai lavori, che permettono una rielaborazione di forme già precostituite. Possiamo notare, e anche a occhio nudo, che esiste una certa differenza tra questi due elementi: da un lato l’IA diventa uno strumento correttivo, integrativo, di supporto o anche di perfezionamento dell’opera, dall’altro uno strumento totalmente sostitutivo, non solo della maestranza (cioè dello sceneggiatore) ma anche della pretesa creativa, poiché Schrader non ha un’idea di racconto nel momento in cui chiede a ChatGPT di scrivere una sceneggiatura, ma ha soltanto un modello (che è un po’ ciò che avviene anche con il trend di Run Boy Run, no?).

Due immagini generate con ChatGPT da un nostro redattore: è effettivamente un artista per averle pensate?

È evidente, ed è anche giusto, che una platea molto nutrita di commentatori non veda nell’intelligenza artificiale un necessario male del nostro tempo: utilizzata per integrare o supportare il lavoro di una persona, l’AI può essere molto positiva, purché questo lavoro stesso venga salvaguardato. In effetti, il nucleo degli scioperi di sceneggiatori e attori muove da questo medesimo interesse: non si condanna l’intelligenza artificiale in se stessa, ma solo nella sua facoltà di sostituire il lavoro umano. C’è, ed è ancor più evidente anche questo, chi invece all’intelligenza artificiale si oppone fermamente, se non per un aspetto prettamente ricreativo e ludico, sostenendo che in sé causi più danni di quanti benefici possa apportare, almeno in ambito artistico. Le due posizioni dominanti vengono poi accompagnate da una terza voce, la quale sostiene che sì, generare immagini o contenuti con intelligenza artificiale sia un atto creativo, se l’idea di fondo non è soltanto un mosaico di forme precostituite ma un’ideale costruzione narrativa e coerente tra forme sulle quali non si lavora direttamente. È interessante notare che tutte queste forme muovono i propri passi da un medesimo nucleo: fin dove l’intelligenza artificiale è tollerabile e quando inizia a diventare un problema. Tornando al succo della questione, è evidente che ci sia un primo grande problema di fondo: se ChatGPT può generare immagini con lo stile dello Studio Ghibli, è perché ha accesso in maniera unsupervised a modelli estetici che siano applicabili alla foto, o al prompt, che noi forniamo; le questioni allora più urgenti sono non di natura creativa, quanto più di tutela del diritto d’autore: ne consegue che, qualunque sia lo scopo, violare una proprietà intellettuale sia sempre un problema. Potremmo aggiungere che appare problematico, se non addirittura spaventoso, comprendere dove si trovino effettivamente questi database, come ChatGPT vi acceda e quali siano i processi intrinsechi e sconosciuti all’uomo, ma amplieremmo il tema di gran lunga.

Tornando, allora, all’ambito creativo, resta un dubbio di fondo da chiarire e per cui, forse, la soluzione è molto meno netta di quanto si immagina: pensando ad un mondo ideale in cui nessun posto di lavoro viene sacrificato (poiché in soldoni il problema di molti creativi è proprio questo), produrre arte servendosi di intelligenza artificiale è un elemento, a tutti gli effetti, artistico? Se chiediamo all’intelligenza artificiale di creare un’immagine con lo stile dello Studio Ghibli siamo artisti perché abbiamo avuto un’idea creativa o non lo siamo perché abbiamo “delocalizzato” il processo creativo? Probabilmente, la risposta a questa domanda non chiama neanche più in causa l’utilizzo dei sistemi AI, quanto più la nostra concezione dell’arte. Ogni grande rivoluzione, con le sue guerre e le sue polemiche, ha però di rado limitato il genio artistico o il presunto tale, limitandosi a spazzare via le sole forme di riproduzione standardizzata di un lavoro: che sia bello o brutto, accettabile o non accettabile, anacronistico o tremendamente attuale, è davvero difficile immaginare che la necessità creativa sia del tutto soppiantata in luogo di un modello orwelliano. Certo, forse sarebbe necessario iniziare ad accordarsi su quali siano, se ce ne sono, i confini della creatività.