Articolo pubblicato il 25 Aprile 2025 da Bruno Santini
Presentato in anteprima internazionale il 30 ottobre 2024, nel contesto del Tokyo International Film Festival, e per la prima volta in Italia il 25 aprile 2025, in anteprima al Far East Film Festival 2025, Lust In The Rain è l’ultimo film di Shinzo Katayama, con Ryo Narita, Eriko Nakamura, Go Morita e Naoto Takenaka protagonisti. Nel lungometraggio, dalla durata di 132 minuti, si riflette su una storia d’amore impossibile attraverso il racconto (in pluralità di sguardi) di Yoshio, un giovane ragazzo raccontato attraverso diverse chiavi di lettura. Con echi che rimandano al cinema di Hitchcock, Lynch e Wong Kar-wai, Lust In The Rain fa sua una forma di racconto visivamente e narrativamente molto interessante, benché a tratti pomposa, che riflette sul tema della mente e del suo rifugio.
Espressione e repressione nel racconto di Lust In The Rain
Un uomo e una donna si conoscono per caso durante un temporale, potendo ripararsi soltanto in quel che rimane di una vecchia stazione degli autobus: lui sembra essere ossessionato dalla possibilità che il metallo possa attirare dei fulmini e, così, a poco a poco i due si spogliano addirittura del loro intimo (in nylon) finché non hanno un rapporto sessuale; è questo il preludio di Lust In The Rain, che scopriamo poi essere il manga che Yoshio – un giovane e povero ragazzo che ha il sogno di diventare mangaka – sta disegnando. Il desiderio, che compare fin dal titolo del film di Shinzo Katayama, diventa così un motore di quella rappresentazione che mette costantemente alla prova lo spettatore, rispetto alla sua capacità di guardare oltre ciò che sta comparendo sullo schermo.
Il cinema è pieno di colpi di scena, rappresentazioni fasulle e realtà che si sovrappongono ad altre, per cui non ci stupisce pensare che tanti atteggiamenti derivativi dal cinema Occidentale possano riflettersi in Last In The Rain, figlio di una scuola particolarmente nutrita che unisce thriller e dramma, in questo caso anche fortemente a tinte erotiche, per generare delle narrazioni che siano estranee rispetto a ciò che si sta guardando. Yoshio, il nostro protagonista, in effetti è tutt’altro rispetto a ciò che ci viene mostrato nella maggior parte del film e scoprire la sua vera identità, e la realtà da cui si rifugia, è un espediente sicuramente molto interessante per iniziare a decostruire quelle formule che il film aveva edificato durante la maggior parte della sua durata.
C’è un aspetto sicuramente molto interessante, però, dalla visione complessiva di Lust In The Rain, che deriva proprio dal trattamento del desiderio: impossibilitato ad avere un rapporto sessuale, Yoshio inizia ad essere ossessionato dalla pulsione carnale, che si fa spazio in lui attraverso rappresentazioni distorte sempre più frequenti, in cui “addormentarsi vuol dire svegliarsi”. E non è, a posteriori, neanche un caso che proprio quando il rapporto sessuale diventa protagonista sullo schermo, in cornici sempre più lontane dalla realtà (come un letto matrimoniale in mezzo al nulla), si applica una censura – immaginiamo non necessariamente narrativa – sui genitali dei protagonisti. Il desiderio di Last In The Rain, contrapposto a quell’ironica follia dei personaggi immersi nel loro (vero o falso che sia) mondo diventa, allora, motore dell’intera rappresentazione, concretizzandosi nella forma di corpi sudati, madidi di liquidi, eppur sempre candidi.

La recensione di Last In The Rain: da Lynch a Wong Kar-wai, tanto citazionismo in una cornice (talvolta) pomposa
Nel corso del film scopriamo che tutta quella con cui ci siamo confrontati è una realtà fasulla, che la mente del vero Yoshio costruisce: trattasi di un giovanissimo soldato impaurito e incapace di uccidere, nel contesto di un (quanto?) lontano Giappone in guerra contro il Taiwan. La realtà fasulla, sognata e sovrapposta a quella concreta non è un’invenzione di Shinzo Katayama, che del resto si rifà a Mulholland Drive per la sua rappresentazione, ma la sovrapposizione costante e ondivaga tra i piani narrativi, che si mescolano tra loro e si alternano, fino a generarne di altri, è sicuramente un’intuizione interessante. Il soldato viene allora colpito al braccio, che perde, e tutte quelle figure che ha sognato sono in realtà persone che lo circondano nella realtà dell’ospedale: tuttavia, non è reale neanche questo mondo, a sua volta sognato sul punto di morte del giovane soldato che ha avuto una storia d’amore con una donna in un bordello, di cui era innamorato tanto da volerla portare via con sé dalla guerra.
Nel modo in cui viene portato sullo schermo il sentimento di Yushio e Fukuko, sempre inafferrabile e sfuggente, immerso in interni saturati dai colori caldi, rimanda invece al cinema di Wong Kar-wai che si innesta così come riferimento per buona parte del film. E non mancano il senso della donna che vive (e che muore) due volte di natura hitchcockiana, così come tutti gli altri personaggi che acquisiscono più volti possibili in quei mondi che tendono, alla fine di tutto, a rassomigliarsi. Lust In The Rain ha soltanto il grave difetto di essere un fiume in piena, ricco di idee e buone intuizioni ma senza un accurato controllo di cui avrebbe beneficiato nella sua seconda parte: l’atteggiamento pomposo che spesso assume finisce, purtroppo, per offuscare gran parte di quel bello di cui abbiamo parlato. Ma parliamo comunque, e pur sempre, di un tipo di cinema assolutamente necessario al giorno d’oggi, in cui la chiave rappresentativa di ogni figura può dare qualcosa allo spettatore, indipendentemente dalla realtà a cui aderisce.