Articolo pubblicato il 27 Aprile 2025 da Bruno Santini
Il Far East Film Festival 2025 accoglie, tra le sue file, diversi lavori che omaggino la tradizione tipica del cinema d’azione asiatico, che trova in Hong Kong uno dei suoi massimi rappresentanti. Non sorprende, dunque, che tra i titoli presentati ci sia anche The Prosecutor, dietro la macchina da presa e anche attore protagonista per un thriller in cui la componente delle scene d’azione è particolarmente notevole. L’attore e artista marziale, che deve il suo enorme successo alle interpretazioni in film in cui spicca lo stile del Wing Chun, realizza qui un’opera certamente egoriferita, ma non fallimentare, in cui il comparto dell’azione primeggia a scapito di una costruzione piuttosto scarsa del racconto. Di seguito se ne offre maggiore considerazione attraverso la recensione di The Prosecutor.
L’ambiente giudiziario come culla della criminalità in The Prosecutor di Donnie Yen
Di film che, esaltando una componente, rinunciano al senso del racconto e di uno sviluppo tematico all’interno del lungometraggio ne esistono tantissimi, e The Prosecutor con molta probabilità non sarà l’ultimo. L’intera tradizione di Hong Kong, fatte salve alcune evidenti eccezioni come quella di Wong Kar-wai, si fonda sull’azione concepita con grande presa sul sonoro e sulla rumoristica, elementi in grado di enfatizzare la lotta e la coreografia al cinema. Il film di Donnie Yen sceglie, come epicentro della rappresentazione della legalità, l’ambiente giudiziario, nell’ambito di un processo che porta ad una sentenza sbagliata: il giovane Ma Ka-kit, infatti, viene incriminato per traffico e possesso di droga dal momento che ha fornito il suo indirizzo (in cambio di 1000 dollari) a un suo amico che se ne serve per inviare un pacco contenente sostanze stupefacenti.
Il gesto in sé si dimostra parte di un intero mercato criminale, che coinvolge anche i rappresentanti della legge tramite uno studio di avvocati pro brono, e Fok (lo stesso Donnie Yen) nei panni di un PM ed ex-poliziotto tenta di porre fine alla questione schierandosi dalla parte dei più deboli. Lo dicevamo in precedenza: trame semplici e molto grezze per mettere in luce tutte le qualità nell’ambito di coreografie, battaglie e arti marziali, per un Donnie Yen che – prima di essere un validissimo attore e regista – ha sempre ottenuto successo anche coreografo nella scuola cinematografica di Hong Kong. Il mercato occidentale si rapporta a questo genere di cinema da relativamente poco, e forse un esempio che si avvicina a tali rappresentazioni è quello di John Wick (dove del resto Donnie Yen è presente nel cast), ma non si fa mai fatica ad apprezzarne le componenti, grazie ad una concezione dell’azione matura, dinamica, ben ritmata in tutti i suoi punti. Fin dalla notevole sequenza iniziale, in cui tutto il talento dell’attore e artista marziale viene mostrato nel suo lavoro di poliziotto, The Prosecutor è allora brillante nel suo lavoro squisitamente tecnico, difettando purtroppo in tutto il resto.

L’azione non basta a salvare un film troppo scarso e ingenuo
Una regola non scritta di questo tipo di cinema è quella di dover avvicinare (qualora lo si voglia fare, ma non è di certo un obbligo) alle sequenze più frenetiche e dinamiche uno sviluppo della trama coerente, che permetta di far emergere un qualche tipo di pensiero. The Prosecutor, purtroppo, fallisce in tutto ciò che non ha a che fare con l’azione, sviluppando una trama pretestuosa che, per quanto finalizzata ad esaltare le caratteristiche di Donnie Yen, difetta nella costruzione sensata della messa in scena e nella veicolazione di un messaggio; lo ribadiamo: non sarebbe un problema l’assenza di una trama ben sviluppata o di un tema radicato nell’opera, ma in The Prosecutor si avverte quella volontà di fornire al lungometraggio una chiave di lettura più ideologica che, però, manca e appare frettolosamente infantile.
Lo sviluppo del messaggio – porsi dalla parte dei più poveri, lo stato di diritto è l’ultimo baluardo per la difesa di chi è debole, bisogna battersi ogni giorno per la libertà e l’uguaglianza – sembra appartenere ad un tema da scuola elementare, non riuscendo mai a mettere davvero in discussione la pochezza di cui è intriso. Lo sviluppo stesso di tutti gli altri personaggi che contornano Donnie Yen, ancora, appare claudicante: sembrano tutte semplici macchiette al servizio di chi si trova al centro, tanto che si riesce ad apprezzare molto più la caratura dei nemici, per il semplice fatto che questi fanno parte dello scontro e si misurano – ancora una volta ben coreografati e diretti – in scene d’azione incredibilmente divertenti. La risultante di tali considerazioni non può che essere una, allora: perché sforzarsi così tanto di apparire moralmente credibili, se il cinema d’azione è in sé stesso un genere di tutto rispetto?
Con la materia processuale che sembra scimmiottare (anche negli atteggiamenti e nei modi di porsi, oltre che nell’estetica del conflitto in tribunale) esempi anche recenti come quello di Anatomia di una caduta, The Prosecutor è ossessionato dall’idea di acquisire un tono e di mostrarsi rappresentativo per una qualche classe sociale che possa ritrovare, in questo tipo di cinema, maggiore espressione e menzione. Il risultato è però blando, forse addirittura lesivo poiché troppo infantile e fiabesco nella risoluzione degli eventi: poco male, però, perché per temi francamente dimenticabili come quelli del film conserviamo il pregio di una notevole azione, che dimostrano come Hong Kong sia ancora fortemente attiva nel suo spiccato stile produttivo.