Articolo pubblicato il 27 Gennaio 2023 da Bruno Santini
The Bear è una serie TV su Disney Plus in grado di conquistare velocemente il suo grande successo, in virtù di un’ottima creazione da parte di Christopher Storer, spesso anche sceneggiatore e regista dei singoli episodi; grazie all’interpretazione di Jeremy Allen White, già celebre per il suo ruolo in Shameless e qui in grado di alzare il livello, The Bear ha saputo farsi spazio anche ai Golden Globes, dove ha ottenuto una vittoria (proprio per l’attore) su due candidature totali; in virtù dell’annuncio della seconda stagione della serie, che arricchirà ancor più la rappresentazione fin qui offerta, vale la pena parlare della serie TV in questione, relativamente alla sua trama e alla sua recensione.
La trama di The Bear, serie TV su Disney Plus con Jeremy Allen White
The Bear racconta delle difficili sorti di un ristorante per famiglie di origine italiana: il suo vecchio proprietario, Michael, si è suicidato ed ha affidato la gestione del luogo a suo fratello, Carmen “Carmy” Berzatto (Jeremy Allen White) che, dopo aver lavorato in alcune delle cucine più importanti al mondo – come quella del Noma – si ritrova in un ambiente particolarmente ostico, in virtù di tutte le difficoltà che sono messe bene in mostra dalla serie in questione. Il locale è completamente allo sfascio, i debiti (dal punto di vista economico e finanziario) abbondano, i creditori di Michael si fanno sempre più pressanti nei confronti di Carmy, che non sa come ripagarli; in più, il gruppo di chef con cui Carmen Berzatto si ritrova a lavorare non è assolutamente organizzato e dimostra di non avere la minima esperienza in cucina.
In un clima di questo genere, lo chef mette a punto una strategia che – in collaborazione di Sidney Sadamu (Ayo Edebiri) – può portare il locale a cambiare, non essendo più soltanto “The Original Beef of Chicago” ma qualcosa di più; il tutto avviene, naturalmente, in un contesto particolarmente chiassoso e ricco di ostacoli, rappresentati dalla malavita locale, dallo sguardo attento degli operatori sanitari e tanto altro ancora.

La recensione di The Bear su Disney Plus
Riuscire a immaginare una serie che, a seguito di otto puntate, ponga in essere degli elementi rappresentativi in grado di traghettare verso una seconda stagione con così tanta qualità, non è certamente cosa da tutti i giorni; a ben vedere, in effetti, The Bear è un ideale prologo in grado di mostrare tutto l’enorme pregresso che c’è alla base della nascita e della creazione del locale omonimo: una narrazione in medias res, dunque, che recupera i suoi elementi per mezzo di brevi e fugaci flashback, ma anche un’enorme base rappresentativa verso le prossime stagioni. La tipologia di creazione qui presentata non è certamente unica o originale: le realtà televisive degli ultimi anni sono pensate già sulla base di un discorso su più stagioni, attraverso l’inserimento di elementi di ambiguità, cliffhanger o rappresentazioni che – qualora il successo dovesse esserci – giustificherebbero senza alcun problema la realizzazione di altre e successive stagioni; in The Bear la macchina creativa appare più congegnata, con una narrazione che sa introdurre perfettamente lo spettatore nel mondo della cucina ma con una struttura che, allo stesso tempo, non dice ancora nulla. E lo fa magistralmente.
Più che parlare di cucina, per quanto il percorso intrapreso dalla serie non si discosta quasi mai dall’ambiente in questione (sapendo rappresentare il clima costantemente nervoso degli spazi in cui uno chef lavora), la serie si concentra sull’ossessione: in qualsiasi momento della serie si può intravedere un personaggio ossessionato dalla sua creazione, dalla sua voglia di emergere a tutti i costi da un contesto di difficoltà, dalla volontà di riscatto rispetto a situazioni che sono vissute come disagianti. Un’ossessione che, a ben vedere, rende opaca la propria vista, così come sfumata appare la visione di Carmy in alcuni momenti della propria giornata, in cui perde il controllo nonostante una tenuta mentale che dovrebbe essere – dato il suo lavoro – impeccabile. Funzionano particolarmente le sovrapposizioni di voci, le urla, i litigi, gli scontri fisici e i continui “Chef!” pronunciati in maniera ossessiva da parte dei personaggi della serie, dal momento che sanno restituire quello stesso elemento di cui si faceva precedentemente cenno. Vi si potrebbe obiettare che si tratta di una caratterizzazione eccessiva di ogni elemento di trama o di rappresentazione: a ben vedere, però, al di là di quanto la cucina sia caotica (e la serie riesce certamente nel mostrare questo elemento), ognuna delle caratterizzazioni qui presentate è ben lontana dall’essere macchiettistica.
Pur con elementi spesso didascalici – come le fiamme o le lancette dell’orologio il cui rumore si fa sempre più pressante – la serie sa rappresentare la tensione che si avverte sull’ambiente di lavoro, oltre che il clima frenetico a cui potenzialmente ogni essere umano è destinato nella sua vita. In tal senso, dunque, l’episodio meglio riuscito è proprio il settimo, il più breve della serie, che costituisce anche il punto di rottura fondamentale dal quale ripartire al termine della stagione (di conseguenza, anche dalle stagioni successive): 20 minuti di piano sequenza, di campo-controcampo che funziona in maniera estremamente dinamica, di un montaggio incredibilmente frenetico che sa mostrare – con una fluidità assolutamente non banale – la velocità di ragionamento e di perdita della ragione, di creazione e di distruzione, di genialità e follia. È il momento in cui l’elemento positivo di una recensione a 5 stelle si trasforma in trampolino di lancio verso l’abisso: richieste su richieste che sono sanno essere gestite, un solo errore che complica le sorti di un intero ristorante; eppure, al termine del declino, c’è sempre la qualità, da cui è possibile riedificare: è Carmen, che assaggia il pezzo di ciambella di Marcus, potendo costatare il suo enorme talento.
Per mezzo di un parallelo metaforico mai banale, The Bear porta avanti due narrazioni compresenti: da un lato il destino della cucina di Chicago, dall’altro la morte di Michael, che sembra quasi rovinare la vita di Carmy, destinandolo agli alcolisti anonimi e ponendolo in confronto con quell’enorme orso che potrebbe divorarlo da un momento all’altro. La depressione, il suicidio, ancora una volta l’ossessione e il senso di annullamento che appartiene agli esseri umani, che sia o meno per la volontà di annullarsi per il lavoro, sono temi che la serie sa ben trattare, rinunciando a parlare solo ed esclusivamente di cucina e concentrandosi su tanto altro.

Il clima della cucina ricreato in The Bear
A margine della recensione di The Bear e nella considerazione degli aspetti fondamentali della serie TV su Disney Plus creata da Christopher Storer, non si può non sottolineare quale sia il merito fondamentale di una serie che riesce – un caso raro nel tessuto cinematografico e televisivo che si basa sulla stessa nicchia – a mostrare il volto cupo della cucina, come tanti altri prodotti non riescono a fare pur per mezzo di un’abbondanza di perifrasi e metafore. La cucina è un ambiente molto spesso avvicinato alla calma, alla liberazione dei sensi, alla gioia di poter comunicare attraverso un piatto: costanti che, però, devono inevitabilmente scontrarsi con un clima costantemente teso, in virtù di quel bilico che è determinato dalla velocità, dalla costanza e dalla qualità che deve essere offerta per ogni singolo cliente.
Non c’è nulla di particolarmente felice all’interno di una cucina, anche quando tutto funziona per il meglio: ogni portata è il risultato di uno sforzo nervoso immane, che si concretizza molto spesso in urla, litigi, rumori continui e tensione all’interno di un ambiente che – come assicurano gli chef stessi – è praticamente impossibile da vivere. La contemporaneità si era già mossa verso rappresentazioni simili, sia per mezzo di programmi televisivi che cercano di mostrare l’elemento “nervoso” della cucina, sia in virtù di alcuni film come Il sapore del successo, per quanto apparisse reticente sotto diversi punti di vista. The Bear, dunque, è il risultato di un enorme esperimento che sa restituire quel dinamismo tipico da “dietro le quinte”, non annullando il ritmo e non rallentando i tempi, poiché in cucina fermarsi non è tollerabile, ma sapendo offrire allo spettatore una concreta idea di che cosa sia un mondo molto spesso oggetto di utopie.