Articolo pubblicato il 25 Gennaio 2023 da Alessio Minorenti
E’ sempre molto difficile individuare esattamente cosa si intenda per regista indipendente. Chiaramente non tutti gli “autori” sono registi indipendenti, come nemmeno tutti i registi di “genere” (sempre che queste categorizzazioni nel cinema postmoderno poi valgano ancora qualcosa). Ciò che è certo è che questa figura è andata mutando nel tempo, sfuggevole e non sempre precisamente identificabile; ecco di seguito una selezione dei migliori registi indipendenti in attività.

Cèline Sciamma
Tra i migliori registi indipendenti al momento non si può non citare Cèline Sciamma. L’autrice francese ha all’attivo 5 lungometraggi in cui tuttavia è stata in grado di esplorare in lungo e in largo la profondità dell’animo umano. Al suo capolavoro di stampo melodrammatico “Ritratto della ragazza in fiamme” (2019) si affiancano altre quattro opere che compongono due dittici ben distinti. In “Girlhood” (2014) e “Water Lilies” (2007) la regista francese affronta il tema della maturazione fisica, mentale e emotiva legata alla sfera del femminile e lo fa riuscendo ad abbinare con enorme classe le graffianti difficoltà degli anni dello sviluppo con la dolcezza che accompagna le piccole scoperte riguardo il proprio corpo e la propria personalità. “Petit Maman” (2021) e “Tomboy” (2011) invece esplorano l’infanzia e il rapporto con i propri genitori, che nel cinema della Sciamma assumono al contempo il ruolo di simboli da imitare e esempi da rifuggire senza che si riesca mai a scindere completamente questi due aspetti.

Kantemir Balagov
Introdotto al cinema d’autore sotto l’ala protettiva di Sokurov, Kantemir Balagov è sicuramente uno dei più fulgidi astri del cinema est-europeo. Il suo esordio “Tesnota” (2017) merita il sicuramente troppo abusato aggettivo fulminante; infatti il giovane regista riesce attraverso aderenze cromatiche sontuose, una narrazione drammaturgicamente perfetta e una scelta dei piani di ripresa impeccabile ad avvolgere lo spettatore in un racconto di violenza, emarginazione e grettezza morale che più volte colpisce duramente allo stomaco. Il finale è commovente senza essere tuttavia ricattatorio, mentre farà ancora a lungo discutere la scelta di Balagov di inserire a metà film la ripresa reale di alcune violenze perpetrate da un gruppo di ceceni su dei soldati russi.
La sua opera seconda “La ragazza d’autunno”(2019) invece è una descrizione glaciale eppure profondamente umana della vita in un ospedale russo a Leningrado nel 1945, tra le macerie durante una delle più sanguinose battaglie della Seconda Guerra Mondiale. La pellicola pone lo spettatore nella non facile posizione di come empatizzare con una protagonista che compie un atto imperdonabile. Su questa ambiguità il regista russo elabora uno dei più bei film degli ultimi anni riguardo la maternità e la voglia di vivere a tutti i costi.

Sean Baker
Sean Baker, nato e cresciuto a Summit nel New Jersey, grazie al suo stile unico ed inconfondibile è considerato tra i più giovani ed interessanti talenti del cinema indipendente. Fin dal suo esordio, “Four Letter Word” (2000), Baker ha deciso di focalizzarsi sul raccontare le avventure di personaggi considerati emarginati, spesso attraverso storie ambientate lontane dai “riflettori hollywoodiani”. Un regista con una grande propensione a portare sul grande schermo film considerati fuori dagli schemi, allo stesso tempo semplici quanti efficaci nel portare al pubblico un messaggio chiaro. Tra i titoli della sua, ancora al momento esigua, filmografia che hanno riscosso maggior successo ci sono: “Tangerine” (2015), “Un Sogno Chiamato Florida” (2017) e, infine, “Red Rocket” (2021). Tre commedie agrodolci che criticano apertamente il tanto agognato “sogno americano” con protagonisti, rispettivamente, una prostituita transgender, una giovane madre single ed un suitcase pimp. Insomma, un cinema indipendente fatto di innovazione e capace di catturare lo sguardo e il cuore dello spettatore, spesso riuscendo a scoprire nuovi talenti o riportare in auge star che sembravano, oramai, perse tra le ramificazioni dell’industria statunitense.

Emma Seligman
Autrice nel 2020 di uno dei migliori esordi degli ultimi anni, Emma Seligman, regista canadese che vive a New York, può essere considerata a ragione uno dei più promettenti talenti degli ultimi anni.
“Shiva Baby” (2020) è un claustrofobico, spietato e caustico affresco delle dinamiche che intercorrono tra i componenti di una famiglia ebraica nel corso di un bar mitzvah. La protagonista è il perfetto simbolo dei tormenti, le incertezze e la precarietà esistenziale che caratterizzano molti appartenenti alla così detta generazione z. Al di là degli innegabili meriti artistici e di una regia che rende gli spazi assolutamente asfissianti (in questo senso ricordando molto la scelta stilistica adottata da “La scelta di Anne”) e anche le interazioni più basilari al limite del terrificante, il film ha anche il pregio non secondario di trattare in modo critico la figura dello sugar daddy, a cui sempre più studentesse newyorkesi ricorrono per sostenere i costi ingenti delle università americane.

Gianni Di Gregorio
Il panorama italiano, anche per la scarsezza di fondi che lo caratterizza, è ricco di registi indipendenti, eppure all’interno di questa categoria sembra che alcuni diventino addirittura invisibili. E’ il caso del regista romano Gianni Di Gregorio, arzillo artista settantatreenne che pochi sanno essere anche tra gli sceneggiatori di “Gomorra” (2008) diretto da Matteo Garrone.
Il cinema di questo artista è estremamente curioso e contraddistinto da uno stile che nel panorama italiano risulta essere pressoché inedito e avvicinabile, seppur con le debite proporzioni, a quello di Jacques Tati. Il suo ultimo film “Astolfo” (2022) è la senile storia d’amore tra un anziano appartenente a una famiglia nobile decaduta e una donna di paese (interpretata da Stefania Sandrelli). Di Gregorio rientra in quella schiera di registi che spesso interpretano il ruolo di protagonisti nei film che dirigono e questo avviene anche nel suo film più celebre, nonché più bello, “Il pranzo di ferragosto” (2008), storia assurda di un uomo abitante nel quartiere di Trastevere a Roma che, vivendo ancora con la madre, si trova costretto a dover ospitare per il giorno di ferragosto, in una Roma come da tradizione deserta, le suocere o madri di alcune persone a cui deve un favore. La pellicola è un gioiellino di gesti, atmosfere e un’umanità strabordante che conferisce un profondo senso di dignità a tutti i personaggi a schermo, più o meno vicini al capolinea delle loro esistenze.

Charlotte Wells
Impossibile non citare tra i migliori registi indipendenti in attività l’autrice dell’esordio più chiacchierato dell’anno appena trascorso. Charlotte Wells, giovanissima regista di origine scozzese, è l’autrice di “Aftersun” (2022), film il cui attore protagonista Paul Mescal è stato onorato con la candidatura ai prossimi premi Oscar, intimissimo dramma che cerca di ricostruire attraverso la commistione tra barlumi frammentati di memoria e stralci di riprese video una vacanza che la protagonista del film trascorse anni addietro con il suo giovane padre. Il lavoro teorico sull’immagine e sul suo rapporto con ciò che rimane del passato nella nostra mente è raffinatissimo, senza contare come il film riesca a tratteggiare un rapporto padre-figlia di una dolcezza e di una spontanea intimità con pochi eguali.

Takeshi Kitano
Maestro assoluto del cinema contemporaneo e ancora profondamente indipendente è Takeshi Kitano. Il geniale regista giapponese ha una corposa filmografia che affonda le sue radici nell’esordio scioccante eppure già programmatico di tutto ciò che sarebbe venuto dopo “Violent Cop” (1989). Cantore della società nipponica e estroso bardo delle sue peripezie, Kitano è riuscito nel corso della sua filmografia ricca di capolavori (da “Sonatine” a “Kikujiro” passando per “Fireworks”) a mettere alla berlina la violenza della Yakuza pur conservandone la brutalità e a tratteggiare la vita come un gioco sempre in bilico tra euforia e pulsione suicide.

Brady Corbet
Tra i più coccolati giovani autori dal festival di Venezia, Brady Corbet è uno dei registi che più compiutamente ha riflettuto negli ultimi anni su temi quali l’assolutismo, il divismo e il potere derivante dalla propria immagine. Il suo esordio “The Chidhood of a leader” (2015), con protagonista Robert Pattinson, è un meraviglioso studio di carattere antropologico che si pone una drastica domanda: cosa porta alla formazione del carattere di un dittatore? La risposta non è banale ma è un insieme di concause difficilmente scindibili tra di loro e forse riguarda addirittura gesti che solo se inseriti nel contesto dell’infanzia assumono rilevanza, uniti a pulsioni forzatamente o volontariamente represse.
“Vox Lux” (2018) affronta il mondo dello spettacolo contemporaneo e riflette sui limiti tra mondo pubblico e sfera privata dell’artista e su tutte le perniciose influenze che si devono affrontare una volta entrati nel mondo dello show-business.

William Oldroyd
William Oldroyd è un regista britannico che si è distinto per aver con la sua opera prima “Lady Macbeth” (2016) trasposto un testo teatrale russo a sua volta ispirato alla tragedia shakespeariana. Il film è una parabola che vede il personaggio protagonista interpretato da Florence Pugh scardinare gradualmente le catene che la opprimono prendendo possesso degli spazi che inizialmente la ospitano nelle vesti di prigioniera. Abilmente il regista britannico è in grado di trasporre questa transizione rendendo sempre più centrale nell’inquadratura Lady Macbeth che da grigia protagonista di una storia già vista e rivista si fa paladina della propria vita e indipendente dominatrice del proprio futuro. Tuttavia se il fine giustifichi i mezzi e se tutti i torbidi stratagemmi messi in campo da questa problematica figura siano leciti sono giudizi devono essere espressi dallo spettatore.

Jim Jarmusch
Regista americano indipendente per antonomasia (probabilmente insieme a John Cassavetes) è Jim Jarmusch. La quarantennale carriera di questo straordinario regista non può essere riassunta in poche righe, dal momento che la sua produzione spazia dal film di vampiri a cronache di solitudine urbana, tutte narrazioni comunque attraversate da un’area di decadenza e un senso della fine pronto a piombare sui personaggi da un momento all’altro. Poeta del cinema contemporaneo, tra i più abili registi nel descrivere il rapporto alienante tra individuo e spazi metropolitani.