Articolo pubblicato il 6 Aprile 2022 da wp_13928789
Torna la rubrica de #Iclassici, e altra tappa fondamentale nel nostro viaggio dei titoli imperdibili e che hanno fatto la storia del cinema, non poteva assolutamente mancare “Il gabinetto del dottor Caligari”, 1919, diretto da Robert Wiene. Doveroso, come sempre in questa sede, contestualizzare un attimo il periodo.
Il termine espressionismo è molto controverso: può essere usato per indicare un movimento artistico oppure addirittura una categoria dell’arte, uno stile universale, quando un artista cerca di forzare le immagini o le parole verso un’espressività molto intensa. Alcuni teorici, ad esempio, hanno osservato che l’espressionismo coincide quasi con il concetto stesso di arte, poiché ogni arte è espressiva per natura, e ogni movimento artistico cambia, distorce o modifica le figure e le forme. Anche come momento storico, l’espressionismo è molto discusso: ci si interroga ancora se certi film siano espressionisti oppure no. Secondo alcuni storici, come la Eisner, esiste un solo film espressionista in senso pieno, e cioè proprio “Il gabinetto del dottor Caligari”, un film-manifesto di questo stile. Secondo altri, l’espressionismo è uno stile diffuso in questo periodo in Germania, e caratterizza anche film molto diversi fra loro, come quelli di Fritz Lang, di Murnau e così via. Se invece intendiamo l’espressionismo come un movimento artistico storicamente ben preciso, nato in pittura ma esteso a varie arti, come la poesia, il teatro, il cinema, possiamo sintetizzare le sue caratteristiche in una forte distorsione del segno, che sia una frase, un gesto, un verso poetico o un’inquadratura. C’è chi lo definisce un grido anarchico, irrazionale e primordiale (Urschrei) che rompeva l’arte tradizionale; altri invece sostenevano che indicasse l’esasperazione e lo sforzo di esternare i sentimenti, come se si strappasse l’anima, il cuore, esponendoli davanti a tutti, lacerando i contorni del proprio corpo (Gottfried Benn). E dunque, per realizzare queste distorsioni, il cinema espressionista diventa il regno dei trucchi, delle vecchie attrazioni, usate come strumenti per creare allucinazioni. Sovrimpressioni, apparizioni e sparizioni sono elementi per una nuova drammaturgia: spettri, vampiri, automi, morti che ritornano, e la morte stessa come personaggio; oppure sonnambuli, creature di terra che vivono per magia, specchi che sdoppiano le persone, ombre che si staccano e vivono esistenze autonome, metropoli forsennate, irte di torri e luci deliranti, castelli e foreste ciclopiche, draghi fiammeggianti, omuncoli derivati da radici di mandragola, perfide seduttrici, ombre maligne, tutte le creature del sogno e dell’incubo prendono vita con il cinema tedesco. Spazi immaginari si mescolano a spazi reali potenziando a dismisura il mondo fantastico. Ed in casa Germania, non si può escludere il contesto storico che porta proprio ed esprimere tali sentimenti e sensazioni, causate dalla Prima Guerra Mondiale, che fu un duro colpo per l’impero Austro-Ungarico. La Germania ne uscì sconfitta e gravata da pesanti sanzioni economiche. Di conseguenza aumentarono le lotte di classe e la politica non fu in grado di proporre soluzioni utili a migliorare i conflitti.

Nel 1919, quando fu realizzato il Caligari, l’espressionismo, come movimento artistico, era già molto noto. Questo film fu quindi la sua apoteosi e celebrazione.
La trama è incentrata su un giovane, Franz, intento a raccontare ad un amico anziano la storia contorta di un sinistro imbonitore, il dottor Caligari, che gira per le fiere dei paesi mostrando un sonnambulo, Cesare, che dorme dentro una bara. Nel paesino di Holstenwall, dove abita Franz, la comparsa del dottor Caligari coincide con una serie di morti violente, fra cui il segretario comunale e anche un caro amico di Franz, Alan. Una notte Cesare rapisce la bella Jane, di cui Franz è innamorato e, inseguito ai paesani, scappa in un paesaggio dipinto, nascondendosi dentro il manicomio. Penetrati là dentro, gli inseguitori scoprono che si tratta del direttore stesso: costui infatti è stato preso da un delirio di onnipotenza. Il dottore viene così smascherato e chiuso in una cella, ma presto la verità appare più chiara, dato che ci verrà svelato essere il narratore, Franz, un pazzo, e non il direttore della clinica, il quale invece dichiara “Ora so come curarlo”.

Il delirio, di cui i personaggio si accusano reciprocamente, si diffonde anche dentro le inquadrature, con le case distorte che sembrano cadere addosso ai passanti, le strade serpentine che non hanno nessuna direzione e spesso ritornano indietro, i lampioni sbilenchi che non illuminano niente, e gli alberi che sono tutti disegnati sulla carta dello sfondo. I personaggi hanno il volto contratto e coperto di trucco, come maschere dell’orrore e, Cesare ha gli occhi paurosamente cerchiati di nero. Le stanze e le finestre sono triangolari e i pavimenti inclinati. Tutto è falso, anche le luci sono spesso disegnate sulle pareti; i paesaggi sono dipinti. Alla fine, tutti i personaggi rientrano in scena, come pazienti della clinica che si aggirano nel cortile, vaneggiando.
Il protagonista ci ha fatto entrare nel suo mondo di delirio. L’influenza di un grande pittore, Kirchner, anche lui spesso in preda al delirio e sovente ricoverato in cliniche psichiatriche, e dei suoi dipinti con i grossi contorni neri che isolano le figure umane dallo sfondo, sono ben visibili nel film, sia per le scenografie, i costumi e i trucchi, disegnati da tre pittori suoi seguaci, Hermann Warm, Walter Röhrig e Walter Reimann, ma anche nella recitazione eccessiva e sproporzionata, sempre ispirata al terrore. Ma il Caligari era anche vicino al futurismo italiano: gli scenografi infatti imitarono anche le scenografie di Prampolini in Thaïs. Girato per lunghe inquadrature fisse, il film è un incubo a due dimensioni. Una serie di disegni viventi, come una crudele magia.

Insomma, un capolavoro totale che ha per sempre intriso il cinema di nuovi valori, tra cui la grande importanza del volto, oltre che per un discorso contenutistico e scenografico. Non fatene mai a meno, recuperatelo se ancora non lo avete fatto!
Christian D’Avanzo