Articolo pubblicato il 14 Giugno 2022 da Carmine Marzano
Il quadrato della scacchiera è un poligono geometrico di razionalità, racchiudendo al proprio interno 64 caselle, in cui la mente di Elizabeth “Beth” Harmond (Anya Taylor Joy), cerca una propria tranquillità mentale, tramite le infinite combinazioni permesse da tale gioco, cercando così un modo di tenere sotto controllo le proprie ossessioni, nel tentativo di scacciare o per lo meno tenere a bada i propri demoni interiori.
La Regina degli Scacchi di Scott Frank (2020), è un adattamento dell’omonimo libro di Walter Treves (Queen’s Gambit in inglese, una mossa di apertura degli scacchi) scritto negli anni 70’, – approfittando della fama improvvisa dello scacchista Bobby Fisher (di cui la protagonista è un’invincibile duplicato in gonnella) -, deve la propria fama ai posteri, per essere stato l’autore dello Spaccone, da cui venne adattato l’omonimo capolavoro di Robert Rossen con Paul Newman.
Le comunanze tra le due opere sono molteplici; una protagonista che vive in funzione di un unico obiettivo a costo anche di autodistruggersi, la solitudine come conseguenza delle scelte di vita, nonché il tema più importante di tutti, poiché connesso ai problemi dello stesso Treves, la dipendenza da alcool e farmaci, i quali contribuiranno a portarlo ad una morte precoce.
Salutata nel 2020 come opera di rivalsa femminista nei confronti di un mondo tipicamente maschilista, in realtà il focus centrale è la dipendenza della protagonista, elemento importantissimo sul quale ci si può focalizzare solo se conosciuti i problemi dell’autore da cui è tratta l’opera; Beth, modellata sulle fattezze del viso ben poco omologate della sua interprete Anya Taylor Joy, nonostante gli occhi potenzialmente super-espressivi, è una maschera di porcellana fredda quanto asettica, celando dietro il propri volto un’interiorità devastata e lacerata. Cresciuta in orfanotrofio, imbottita di tranquillanti per tenerla sotto controllo, sviluppa una dipendenza da farmaci, alterando lo sviluppo della sua mente, con una forte propensione all’iper-attività, che trova una valvola di sfogo negli scacchi, presto divenuti unica occupazione, in grado di placare la propria psiche, sviluppando l’ossessione di voler battere ogni giocatore sulla propria strada, sino a giungere al trono di migliore scacchista di sempre, dovendo sfidare i campioni sovietici.

Quelle come te non hanno vita facile. Sei due facce della stessa medaglia; da una parte il talento, dall’altra il prezzo da pagare. Non si può dire quale sarà il tuo di prezzo, avrai il tuo momento di gloria, ma questo non durerà, tu hai così tanta rabbia dentro, devi fare attenzione.
Mr Scheibel (Bill Camp)
La miniserie in 7 episodi, non nasconde per nulla la propria impostazione classica, questo non è un problema se una struttura già vista, gioca bene i propri ingredienti tramite la propria capacità nel saper narrare, cosa in cui il regista-sceneggiatore Scott Frank, si dimostra abile, senza disperdere mai il proprio focus principale tramite sotto-trame invadenti, né abbandonandosi a virtuosismi visivi o estri registici inutili, atti ad esibire una mera spacconeria tecnica, optando per aderire lo stile classico alla materia trattata, adoperando un montaggio dal taglio dinamico, – ma fortunatamente non cinetico -, ad un gioco statico e calcolatore come gli scacchi, rendendo la vicenda sempre appassionante per lo spettatore a digiuno della materia, il che ha garantito i numeri record dell’opera su Netflix, che, – complice anche la pandemia da Covid19 -, divenne la più vista di sempre, prima di perdere il primato a favore di Squid Game (2021).
Scott Frank ha capito sin da subito, di avere un forte asso nella manica, Anya Taylor Joy, la giovane attrice classe 1996, dopo la prima puntata dove il proprio personaggio viene interpretato da Isla Johnson, sin dal secondo episodio si prende pienamente la scena, seppur poco credibile come ragazza di tredici anni in quel segmento iniziale dove viene adottata dai signori Weathley, l’interprete gioca su una prestazione basata su tocchi di fioretto, senza strafare, – cosa facile dato il personaggio -, facendo emergere nelle sue piccole sottigliezze espressive, il profondo intimismo delle sofferenze in cui è immersa Beth, una figura basica a livello di scrittura, alla quale riesce a donare un gran fascino, mistero e personalità, tramite una prova le cui qualità emergono alla distanza.
La dedizione al ruolo dell’attrice si vede tutta nella preparazione al personaggio, studiandone in profondità sia il lato psicologico, sia quello di giocatrice, avendo dovuto leggere parecchi libri di teoria ed applicazioni degli scacchi, arrivando così a costruire una Beth sempre interessante dal punto di vista cerebrale nelle sfide con gli altri giocatori, sia dal punto di vista umano nelle relazioni verso gli altri, spesso tossiche (vedasi il rapporto di affetto distruttivo con la madre adottiva interpretata da Marielle Heller), altre volte del tutto apatiche, per via della dissociazione mente-corpo, che la rende spesso estranea a ciò che sta facendo, – su tutte la sua prima volta -.
Anche quando la sceneggiatura deraglia malamente, – l’episodio 6 dove la dipendenza da alcool è al suo apice, è quello con la scrittura peggiore -, l’attrice tramite le proprie movenze, catalizza su sé stessa l’attenzione della storia, occultando in parte i problemi narrativi; Anya Taylor Joy si conferma quindi tra le migliori 5 attrici under 30 del cinema anglo-americano; non che ci fosse bisogno di ulteriori conferme dopo The VVitch (2015), Split (2016) o Emma (2020).

Fu la scacchiera a colpirmi. Esiste tutto un mondo in quelle 64 case. Mi sento sicura lì, posso controllarlo, posso dominarlo ed è prevedibile. So che se mi faccio male è solo colpa mia.
Elizabeth Harmond (Anya Taylor Joy)
Alla luce di ciò, non siamo innanzi ad un “Rocky” con la scacchiera, come definito malamente da qualche critico incompetente, quanto invece ad un percorso di liberazione e lotta della protagonista contro la dipendenza, di cui ella è ben consapevole del suo essere nociva, ma risulta incapace di sottrarvisi, anche perchè nutre una dipendenza ancora più grande; il gioco degli scacchi.
La serie valorizza la figura femminile concentrandosi sulle sue qualità, senza demonizzare la figura maschile, anzi, Beth Harmond, mostra molte volte poco tatto verso l’altro sesso, che in realtà vorrebbe solamente esserle di supporto e di aiuto emotivo.
S’introduce quindi una possibilità della ragazza, dalla propria condizione scellerata, tramite un sano collettivismo socialista, visto come un metodo di applicazione migliore, rispetto all’individualismo e la solitudine tipicamente americana; i sovietici sono i più forti a scacchi perché, – nonostante l’individualità del gioco -, negli allenamenti si aiutano sempre tra loro, affinando così le proprie capacità, – “i russi sono i migliori perchè fanno squadra” dice il campione americano Benny Watts (Thomas Brodie Sangster) -. Ne esce quindi un ritratto dei comunisti assolutamente pacato, quanto privo di invettive negative contro la loro ideologia o il popolo in sè, -presentato come acculturato e nobile nell’approccio al gioco -.
Beth Harmond pur non abbracciando in nulla il comunismo (non ha nulla contro tale ideologia), risulta al contempo aliena alle logiche del capitalismo, perchè per la ragazza, scontrarsi con i campioni sovietici tra cui Borgov (Marcin Dorocinski), è un ulteriore passo per raggiungere un obiettivo, che potrebbe finalmente dare una forma concreta al suo posto del mondo.
Lineare nel suo sviluppo dall’inizio alla fine, sapendo a-priori come finirà, la scalata della protagonista verso la cima, pur con qualche risvolto atto a scuotere la retta già tracciata, non riserva grosse soprese, risultando però sempre avvincente da seguire, grazie ad un ritmo che in 7 episodi da 60 minuti l’uno circa, condensa tutto ciò che ha da dire, senza divagazioni superflue o decompressioni narrative atte ad allungare il brodo, trovando una chiusura del cerchio soddisfacente, – ma in ciò sarebbe stato meglio aderire alla sfumatura del finale del libro-, senza lasciare trame in sospeso, in tutta onestà il più grande merito di un’operazione nata semplice, sviluppatasi in modo genuino e conclusasi in modo onesto, così che a fronte del successo totalmente inaspettato, Netflix non abbia avuto alcun appiglio per poter richiedere una seconda stagione, – e dato il calendario iper-fitto di impegni di Anya Taylor Joy, questa cosa si spera mai si concretizzerà -.