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Midnight Mass: La simbiosi tra due artisti

Midnight Mass è una miniserie composta da sette episodi, ideata, scritta e diretta da Mike Flanagan. Il percorso all’interno dell’industria dell’audiovisivo di questo regista americano è, al di là di cosa si possa pensare delle sue opere, uno dei più fluidi e dinamici cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Nasce nel cinema horror indipendente, diventa successivamente il braccio destro di King per quanto riguarda le sue trasposizioni cinematografiche (firmando peraltro il tanto contestato “Doctor Sleep”, sequel dello “Shining” di Stanley Kubrick) e infine si sposta sul reparto delle miniserie adattando ottimamente il classico dell’orrore “The hunting of Hill house” di Shirley Jackson e poi, pur mantenendo un controllo di gran lunga minore, “The turn of the screw” (“Giro di vite” in italiano) di Henry James. Ecco che allora Midnight Mass arriva in un momento cruciale nella carriera di questo regista che, dopo aver a lungo collaborato o adattato materiale altrui, ritorna ad avere il timone di un progetto da lui ideato.

Valutare quest’opera senza avere almeno contezza del percorso sopracitato sarebbe sicuramente un compito arduo, in quanto in ogni suo aspetto ricorrono tematiche, suggestioni, spunti visivi e veri e propri snodi di trama riconducibili al lavoro pregresso di questo regista. Prima di addentrarci in questa analisi però è doveroso porsi una domanda: può essere Flanagan considerato un “autore” nell’accezione moderna del termine? Questo discrimine è importante poiché molto spesso nel dibattito cinematografico contemporaneo sembra quasi che a contare sia più l’incasellare un’opera all’interno di un presunto percorso artistico che invece valutarla come unità autosufficiente. Chiaramente è un dibattito che non può essere risolto nel giro di poche righe, ma al riguardo ritengo si possa affermare che tale questione è viva (pur non essendo in realtà particolarmente approfondito) quasi esclusivamente all’interno della comunità cinefila. Credo sia molto più raro assistere a una disputa tra due studiosi o anche solo appassionati di poesia o pittura riguardo il fatto che un determinato artista sia un “autore” o meno. Quello dunque che si può affermare senza timore di smentita riguardo un regista come Flanagan è che tra lavori su commissioni e opere più personali, nonostante una qualità non sempre omogenea, sia possibile tracciare un tragitto che lo ha condotto fino alla sua opera più compiuta, ovvero Midnight Mass.

Il primo elemento di particolare interesse che questa miniserie suscita è quello che pertiene il rapporto tra Stephen King e Mike Flanagan. Pare che dopo la collaborazione tra i due nelle produzioni del regista sia avvenuta una vera e propria fioritura per quanto concerne il lato drammatico e di introspezione psicologica relativo alla scrittura dei suoi personaggi. I romanzi di King più riusciti infatti sono solitamente meravigliosi affreschi che riescono a raffigurare con straordinaria profondità e concisione una moltitudine di caratteri i quali assumono una tridimensionalità che li accompagna all’interno dei tortuosi cunicoli di disperazione e orrore che lo scrittore del Maine ha architettato per loro.

Questa densità e stratificazione si ritrova per l’appunto anche nelle opere di Flanagan più recenti, aspetto quest’ultimo che inoltre non esaurisce il rapporto quasi simbiotico tra questi due artisti. E’ innegabile come molte idee di questa miniserie richiamino prepotentemente alla mente dello spettatore più attento diversi romanzi dello scrittore e in particolare uno: Salem’s Lot. Oltre a tutti gli evidenti parallelismi narrativi infatti ciò che le due opere condividono è l’idea di un agente esterno che aggredisce e disgrega un’intera comunità fino ad allora (apparentemente) unita, mettendone a nudo contraddizioni, dissapori e idiosincrasie troppo a lungo celate. Dove le due opere divergono invece sicuramente è nel finale: King sa alternare finali più concilianti, seppur sempre estremamente dolorosi, ad altri bui e senza speranza. Al contrario Flanagan, come già accaduto con “The hunting of Hill House”, ha come suo tallone d’Achille la gestione della coda delle sue storie che troppo spesso riservano cambi repentini e incoerenti con il resto della narrazione, difetto comunque non pregiudicante per una serie che rimane molto solida.

 

La miniserie ha poi altre due frecce al suo arco affatto trascurabili. Vi è infatti la creatura vampirica più bella e meglio gestita degli ultimi anni, il design e il trucco prostetico si amalgamano alla perfezione, le sue movenze sono messe in scena in modo esemplare e l’atavica sete di sangue che finisce per prosciugarne la capacità di proferir parola, eccezion fatta per gli adescamenti alle sue sciagurate vittime, è un’intuizione davvero notevole. Questo mostro non tradisce inoltre la più importante prerogativa legata alla costruzione scenica di un vampiro: il modo in cui si nutre, il suo avvilupparsi voluttuosamente intorno al collo delle sue prede che in punto di morte emettono lamenti di dolore uniti a gemiti quasi di piacere e i suoi connotati quasi fallici nel compiere questo gesto, conciliano alla perfezione le tematiche di morte e desiderio sessuale da sempre legate alla natura di questo essere succhia sangue.

Come nel sopracitato “Salem’s Lot” poi la serie è perfettamente in grado di camuffare la propria natura almeno fino alla fine del terzo episodio,  intrigando dunque lo spettatore e spingendolo a proseguire la visione più per avventurarsi in cosa sarà che sulla base di quello che è stato mostrato fino a quel momento, errore molto spesso compiuto da tanti prodotti seriali che espongono in bella vista tutto ciò che hanno da offrire fin dal primo episodio mortificando sul nascere il piacere della scoperta.

 

Per riassumere tutto il meglio che l’operato di Flanagan può offrire è indispensabile citare in fine la scena più bella dell’intera serie, ovvero il flashback che conclude la terza puntata e che contiene la rivelazione cardine dell’intera opera. Avvalendosi di appena due location e di un solo attore il regista riesce, grazie a un sapiente uso del voice over, a ricreare un’atmosfera e delle sensazioni che non si fa fatica a definire Lovcraftiane. La raggelante scoperta di una forza più antica dell’umanità stessa, impotenza con la quale sia assiste al suo ritorno, l’arcana mostruosità che riemerge dalle viscere della terra e la distruzione che ne fuoriesce, sono meravigliosamente racchiusi in pochi minuti di girato, segnando probabilmente l’apice fino a ora della carriera di questo artista.

Voto:
4/5
Andrea Barone:
0/5
Andrea Boggione:
0/5
Carlo Iarossi:
0/5
Christian D'Avanzo:
4/5
Paolo Innocenti:
0/5
Carmine Marzano:
0/5
Paola Perri:
0/5
Giovanni Urgnani:
0/5
0,0
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Voto del redattore:
Data di rilascio:
Regia:
Cast:
Genere:

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