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L’antica Roma al cinema: Fellini Satyricon (1969)

Ispirandosi ai frammenti ritrovati del “Satyricon” di Petronio, il Maestro Federico Fellini riflette sulla società contemporanea della fine degli anni’60. Nell’articolo l’analisi del film.
La recensione di "Fellini Satyricon", diretto da Federico Fellini.

Distribuito nelle sale italiane il 18 settembre 1969 e in quelle statunitensi l’11 marzo 1970, presentato alla trentesima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Diretto e co-scritto da Federico Fellini, è la libera interpretazione del testo letterario Satyricon di Petronio Arbitro. Prodotto da Alberto Grimaldi, la colonna sonora è firmata da Nino Rota mentre la scenografia e i costumi sono stati realizzati da Danilo Donati. La pellicola ha ottenuto una candidatura agli Oscar per la miglior regia ed è stato vincitore di quattro Nastri d’argento.

La prassi stabilisce che per i lungometraggi ambientati in un contesto storico ben preciso venga indicata la data di riferimento, in alternativa è il grande evento raccontato che funge da indicatore temporale. In questo caso non vi è alcun bisogno, quello che ci viene raccontato è il dramma sociologico dell’Italia che Fellini stesso stava vivendo, mediante il passato mette in scena il suo presente, forse anche il nostro. Un presente falcidiato da una borghesia decadente intenta esclusivamente ad autocompiacersi e autocelebrarsi, ad esempio Trimalcione per tutta la durata del banchetto sfoggia tutto il suo lusso e la sua opulenza. Ma né il denaro né l’abbondanza possono nascondere la vera sostanza rinchiusa nell’animo, servono solamente a legittimare i propri vizi e le proprie perversioni, l’arte e la cultura vengono svuotate del loro significato, vengono ridotte ad un misero ruolo di maschere allo scopo di coprire una becera volgarità e scostumatezza. Il vero “io” emerge nei gesti e nei comportamenti e persino nel modo di parlare, infatti i discorsi risultano quasi di difficile comprensione a causa di un linguaggio che assomiglia sempre di più ad una serie di grugniti, versi animaleschi usciti dalla bocca di chi fa dell’eccesso il proprio stile di vita. In un discorso profondamente metacinematografico rientra perfettamente il poeta Eumolpo, colpevole di ipocrisia e contraddizione: in un primo momento egli è difensore dei valori artistici e antimaterialisti, puntando aspramente il dito contro chi usurpava le citazioni altrui per farne il proprio bagaglio intellettuale; infine sarà lui stesso a tradire quegli stessi concetti, arricchendosi grazie alla prostituzione e al traffico di esseri umani. Lo stesso poeta nel testamento nomina suo erede chiunque si nutra della sua salma, una sequenza che denota una seria frattura generazionale: i vecchi rimangono e si nutrono di quella carne, attingono alle risorse e alle ricchezze che il proprio Pease lascia in eredità…mentre i giovani scelgono di salpare e prendere il largo, lasciandosi alle spalle una terra che per loro non ha più nulla da offrire.

Sono proprio i giovani ad essere protagonisti di questo road-movie fantastorico, essi incarnano determinate allegorie (gli hippies e la controcultura sessantottina) racchiudendo in sé molti elementi di personaggi rappresentati nelle pellicole precedenti del Maestro (I vitelloni). Encolpio e Ascilto vagano senza una meta precisa, senza un effettivo ruolo nella loro società, mettendo al centro esclusivamente la loro libertà individuale vivendo alla giornata, nell’eterno girovagare sfuggendo alla maturità e alla crescita. Una crescita che per il giovane maschio italiano potrebbe non essere mai raggiunta completamente, ciò è vissuto intensamente nella sequenza del recupero della virilità: Encolpio risolve il suo problema di impotenza sessuale proiettando mentalmente l’immagine di una donna dall’aspetto fisico abbondante, di età adulta. Un legame materno irreversibilmente inscindibile che non si limita esclusivamente al concetto di madre naturale, ma si estende a tutte quelle entità astratte legate a doppio filo con il nostro tessuto sociale: chiesa, stato mafia, etc. L’opera letteraria è giunta a noi in frammenti, il montaggio del film sembra rispettare questa caratteristica, dando la sensazione di seguire una storia a pezzi, rischiando di destabilizzare lo spettatore che assiste ad un finale in cui viene troncato il voice over del protagonista. Una scelta perfettamente coerente con ciò che viene narrato e con ciò che è raffigurato. Una messa in scena della Roma antica che si vuole staccare dalla maestosità dei kolossal hollywoodiani, che rinuncia alla guest star per scavare nell’inconscio e nell’intimo di ognuno di noi.

Voto:
5/5
Carmine Marzano
4/5