Articolo pubblicato il 6 Febbraio 2025 da Giovanni Urgnani
Presentato in anteprima mondiale all’ottantunesima edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, in concorso nella sezione Orizzonti e distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 27 febbraio 2025, grazie al lavoro di Fandango. Il lungometraggio segna l’esordio dietro la macchina da presa di Giovanni Tortorici, mentre tra i produttori figura il cineasta palermitano Luca Guadagnino (Queer). Ma qual è il risultato di Diciannove? Di seguito la trama ufficiale e la recensione del film.
La trama di Diciannove, il film di Giovanni Tortorici
La pellicola è stata presentata anche alla quarantanovesima edizione del Toronto International Film Festival, sezione Discovery ed è stata prodotta da Frenesy Film Company, in collaborazione con Pinball London e con la partecipazione di Tenderstories. Ma di cosa parla quindi Diciannove? Di seguito la trama ufficiale del film diretto da Giovanni Tortorici:
“2015: Leonardo parte da Palermo per raggiungere la sorella a Londra per studiare business; cambia però presto idea e si sposta a Siena per iscriversi all’Università. All’inizio segue le lezioni di letteratura, poi si isola nel suo appartamento. Non lega né con gli altri studenti anche se una di loro, Giulia, lo invita spesso a unirsi a loro, e neanche con le coinquiline. Si cucina da solo, non esce dalla sua stanza ed è circondato solo dalle amate lettere classiche. Nel corso di quest’anno accademico ogni tanto rivede qualcuno, come il cugino che va a trovare a Milano, ma si accorge che il mondo ideale che è nella sua testa è profondamente diverso da quello che c’è fuori.”

La recensione Diciannove, prodotto da Luca Guadagnino
«Il genio non è conformismo», iniziare con questa frase pronunciata dallo scrittore russo Vladimir Nabokov permette di mettere in luce quelle che sono le due più importanti entità astratte protagoniste della pellicola che segna l’esordio alla regia di Giovanni Tortorici, precisamente la genialità e la solitudine. L’anello di congiunzione capace di legarle assieme è la gioventù, il contesto principale di tutto il racconto, tant’è che il titolo stesso sceglie di mettere al centro dell’attenzione l’età anagrafica del personaggio di Leonardo Gravina, non quindi la sua identità.
Essere geni, o sentirsi tali, durante questa particolare e intensa parte della vita, acutizza ancora di più i suoi effetti: l’eccesso d’intelligenza porta ad una consapevolezza di sé tale da costruirsi delle linee di confine attorno, funzionali a tenere fuori coloro che non sono considerati all’altezza, cioè chiunque poiché la genialità la si percepisce come esclusiva, incapaci di appagare l’aspettativa e di rendersi abbastanza da reggere il confronto. L’essere umano però è un animale sociale e anche i più dotati cognitivamente arrivano a soffrire la mancanza di condivisione e la solitudine dovuta all’isolamento, una condizione autoalimentata, un circolo vizioso in perenne attività, spezzabile solamente tramite un atto di umiltà, un passo indietro per riconoscere i propri limiti ma soprattutto per accettare quelli degli altri, rischiando altrimenti di chiudersi così in uno spettrale dramma esistenziale, in cui ci si chiede il senso stesso di possedere tali capacità.
La messa in scena analizza la gioventù in tutti i suoi aspetti, postivi e negativi, come ad esempio la sana voglia e sfrontatezza di sviluppare un proprio senso critico mettendo in discussione le linee guida d’insegnamento e scontrandosi, troppo spesso, con lo “status quo”, per poi cadere in flagrante contraddizione nel momento in cui si giudica aspramente e paternalisticamente le generazioni successive, non accorgendosi nemmeno di cadere in vizi ben peggiori. Lo spettatore è quindi portato coerentemente a provare sentimenti contrastanti nei confronti del protagonista, poiché in lui vivono stati d’animo differenti a seconda della circostanza vissuta, a cui scaturiscono diverse azioni; si empatizza con lui nei momenti più intimi e personali, dove scopre la sua sessualità o è costretto ad elaborare la sua mancanza di socialità e la tristezza dovuta ad un palese disagio psicologico nel momento in cui deve rapportarsi coi suoi coetanei.
Si nutre però un legittimo senso respingente quando la sua intelligenza sfocia più volte nella saccenteria e nell’arroganza, tipica di chi vuol far pesare il suo sapere, dando per scontato che l’interlocutore di turno sappia a sua volta meno di lui, trattandolo perciò con sufficienza o addirittura con riluttanza. Riluttanza che purtroppo si viene a provare, in svariati momenti, rispetto alla regia di Tortorici, dove lui stesso pecca di presunzione nell’affondare il colpo su scelte stilistiche istrioniche, esagerando con slow motion inutili e fermo immagini gratuiti, come se volesse dimostrare fin dal primo film quanto sia in gamba e quanto sia altolocato, abusando ad esempio della musica sinfonica d’accompagnamento.
A suo favore però va riconosciuto il fatto di avere delle idee e spesso di concretizzarle bene, come la “sequenza della cocaina” in cui si comunica la gravita di quello che sta succedendo tramite espedienti del cinema muto di Sergej Ejzenstejn, risultando di grande impatto e potenza. Ciò nonostante, sarebbe stato preferibile una condotta generale più asciutta e umile, anche perché il rischio di distrarre o oscurare il sottotesto in nome dell’estetica elaborata è sempre molto alto; la soddisfazione comunque rimane nel constatare l’esistenza di un cinema sì stimolato dalla realtà ma libero di raccontarla a suo modo, ponendosi come obiettivo quello d’includere e non di escludere, di riflettere e non giudicare.