Articolo pubblicato il 2 Marzo 2025 da Bruno Santini
Candidato agli Oscar 2025 nella categoria di miglior cortometraggio, The Man Who Could not Remain Silent è il più breve tra tutti i corti che hanno ricevuto una candidatura nel contesto della cerimonia, nonché un fulgido esempio di prodotto che, benché sia pensato anche al senso della manifestazione cinematografica e di ciò che effettivamente rispetta i canoni della stessa, sa mantenere una propria identità e integrità morale. Il corto diretto da Nebojsa Slijepcevic racconta brevemente la storia di Tomo Buzov, essendo dedicato alla sua memoria, ma anche di quella distanza e di quel paradosso tra chi si vorrebbe e potrebbe essere chi si è davvero. Di seguito, vediamo maggiormente a che cosa ci riferiamo attraverso la recensione di The Man Who Could not Remain Silent.
Un racconto essenziale e senza esibizione del dolore
Siamo pieni, intrisi anche oltre il necessario, di storie vere e di racconti cinematografici che pescano dalla realtà per ribadire un concetto, o semplicemente per portarlo in scena portando a casa un risultato. La storia vera, che alimenta non soltanto il fascino giornalistico e dello spettatore ma anche il più veloce dei meccanismi narrativi (una volta effettuata l’opera di ricostruzione dal soggetto), è tra le matrici del nostro tempo e del nostro modo di percepire il cinema, accanto ai film biografici, che del resto sono storie vere a cui si aggiunge una buona dose di fascinazione per la figura raccontata.
Uno degli elementi più vividi in questi racconti è l’epica, quella che aggiunge un colorito speciale a storie altrimenti anonime o, comunque, non di per sé così tanto speciali. The Man who Could Remain Silent, pur partendo di fatto da un elemento realmente accaduto, fa a meno di questi presupposti: i 13 minuti di rappresentazione sono essenziali, crudi, avari di parole se non nel dialogo decisivo per la messa in scena e per la funzione del racconto. Pochissime figure, un solo spazio interno rappresentato e nessuna volontà di conferire altro che non fosse l’essenzialità di un racconto: la storia, nella sua rappresentazione, aggiunge i dettagli, ma è pur sempre lo svolgimento di qualche attimo. Così, il racconto di Tomo Buzov, un uomo che ha salvato la vita di un altro, avrebbe potuto tranquillamente ottenere una copertura di qualsiasi tipologia di minutaggio, addirittura con un film. Ma bastano quei pochi e semplici minuti, con ancora meno parole, per dimostrare tutto ciò che ha compiuto senza alcun orpello, senza il bisogno di una parola che dica oltre rispetto al gesto.
La recensione di The Man Who Could not Remain Silent e la scelta di non privilegiare l’eroico
Altro emblema di quel senso del racconto, di cui parlavamo precedentemente, è l’ossessione per la figura del protagonista. Una figura spesso colta in primi piani e in un viso che merita il centro della scena, seguendo dei meccanismi di celebrazione delle personalità che diventa quasi un feticismo dei volti: forse, in The Man Who Could not Remain Silent, la chiave di lettura più convincente è quella della rappresentazione dell’eroe che è sempre in secondo piano. Con la focalizzazione sul personaggio di Dragan, che sembra avere – fin dal momento in cui tranquillizza Milan – le caratteristiche di colui che risolverà la situazione, il cortometraggio conduce (anche con le sue riprese) l’occhio dello spettatore altrove, lasciando che soltanto per qualche secondo l’ex ufficiale in pensione abbia il suo ruolo.
La storia ci dice che quell’uomo, salvando la vita di uno studente, abbia rinunciato alla sua, venendo assassinato da militari poi condannati per crimini internazionali, in una delle pagine più tristi della nostra storia. Il cortometraggio, però, non ha bisogno di dire altro: si sofferma in quel breve, ma significativo, momento della vita di più persone, cogliendo il paradosso tra chi vorrebbe agire in un determinato modo e chi riesce davvero a farlo. Non c’è mai giudizio, né volontà di sottolineare che Tomo Buzov sia un eroe tanto quanto Dragan non lo sia: tutto viene affidato ad una sigaretta e al silenzio, anche in termini di didascalie (c’è soltanto la dedica all’uomo), con lo spettatore a cui tocca il compito di fare tutto il resto.