Articolo pubblicato il 28 Aprile 2025 da Bruno Santini
Con la regia di Shiue Bin Jian e le interpretazioni di Joseph Chang, Moon Lee, Shou Lou e tanti altri, Organ Child è una delle proposte taiwanesi in anteprima al Far East Film Festival 2025 di Udine. Un revenge movie classico, in cui le componenti dell’azione e degli scontri bruti si mescolano in una cornice molto vicina (per certi versi) al cinema Occidentale, pur con delle profonde differenze nella trattazione del personaggio protagonista. Organ Child è un film che potrebbe avere qualcosa di interessante da dire, soprattutto nell’ambito di quel rapporto mai nato tra un padre e una figlia, ma annega in un mare di bruta violenza ed exploitation che lasciano spazio a ben poco altro: di seguito, tentiamo di comprendere maggiormente a che cosa ci riferiamo tramite la recensione di Organ Child.
La recensione di Organ Child: tra violenza bruta e semplicismi tecnici
Quello del revenge movie è un genere che la maggior parte degli spettatori – soprattutto tra coloro che non hanno una passione radicata e analitica per il mondo della settima arte – hanno; i motivi sono semplici: propone un’azione bruta che molto spesso alleggerisce la durata del film, si tratta di film che sanno intrattenere e anche di certe idealizzazioni del bene che trionfa sul male, anche a costo della violenza portata sullo schermo. Ed è di vendetta che parliamo anche in Organ Child, film taiwanese che rispecchia con grande evidenza una cultura molto vicina al modo di fare cinema occidentale, almeno per il trattamento dei personaggi e per quei conflitti che sembrano essere molto vicini a icone del nostro cinema d’azione: Liam Neeson, Sylvester Stallone o Arnold Schwarzenegger su tutti. Lo si dice non per tentare un paragone tra le due scuole di cinema, quanto più per una concezione della messa in scena che evidentemente si affida ad un’azione molto corporale e per cui l’intensità recitativa di un attore non è di certo l’elemento cardine della riuscita di un film.
Questi prodotti, però, di solito possono dire di avere una buona cura dal punto di vista tecnico, soprattutto nel montaggio che deve far capo ad azioni frenetiche e a un ritmo costante e in climax di brutale forza perpetrata sullo schermo; non possiamo dire lo stesso di Organ Child, un film che – prima di essere blando e addirittura sbagliato nella rappresentazione della violenza – è piuttosto povero nella sua attitudine tecnica, suddiviso com’è in blocchi narrativi che fanno fatica a stare insieme e che soffrono tantissimo di quella volontà (da parte del regista Shihue Bin Jian) di alternarne piani temporali differenti, con frequenti rimandi al passato o mostrando una stessa scena più volte, per aggiungerne dei dettagli. E ancora, soprattutto nelle scene d’azione e di conflitto, che dovrebbero caricare maggiormente di pathos la narrazione, si osservano atteggiamenti molto goffi da parte dei personaggi, per i quali si avverte – ed è certamente disastroso rendersene conto – la finzione dei pugni e del sangue. Indipendentemente da questioni di budget o di possibilità produttive, film come i revenge movies (che non possono far riferimento a questioni ideologiche o morali così tanto forti, essendo quel che sono) necessitano obbligatoriamente di un investimento in termini tecnici, che qui manca.

Tanta violenza e finto compatimento in un’opera volgare
Che cosa accomuna John Wick che inizia a massacrare un’intera banda di criminali perché gli hanno ucciso il cane a Bryan Mills, il poliziotto che vendica il rapimento di sua figlia ammazzando tutti i criminali che si frappongono tra lui e la liberazione della ragazza? Il fatto che (e di esempi se ne potrebbero fare tanti altri) ci sono dei confini nell’espressione della violenza espressa sul grande schermo: molto spesso questa è canalizzata verso un obiettivo – anche la vendetta fine a se stessa lo è – e si esaurisce in esso, ricordando allo spettatore che quei personaggi che si reinventano brutali e violenti, in fondo, sono buoni ma mossi da una rabbia molto forte che giustifica la loro azione. In Organ Child quasi spaventa notare che l’espressione e il gusto della violenza portata sullo schermo non abbia alcun confine di questo genere, ma si eserciti semplicemente perché c’è un certo piacere nel proporre un protagonista sempre più sbagliato, criminale e imperdonabile, salvo poi compiere un passo indietro soltanto sul finale, in cui il film vorrebbe diventare giustificazionista.
L’azione del protagonista, un professore di baseball a cui viene rapita la figlia per effettuare un trapianto di cuore che salvi un’altra neonata e a cui muore per suicidio la moglie, è inizialmente indirizzata verso la vendetta classica a cui siamo abituati: in un primo momento l’illusione che la figlia rapita possa essere ancora viva dopo 17 anni di carcere e che possa ritrovarla facendosi strada nella criminalità che ha portato a questo gesto; in secondo luogo la vendetta perché la crede morta. Al centro di questo progetto, il professore costruisce intorno a sé una squadra composta da tutti gli orfani a cui era vicino quando era allenatore di baseball, e per i quali non solo non si offre il più classico dei messaggi pedagogici (un buon professore può cambiare la vita dei suoi alunni), ma anzi compie l’esatto opposto, rendendo tutti questi orfani degli automatici criminali che assecondano un progetto folle, essendo essi stessi più violenti del loro professore.
Con morti su morti, una certa volgarità nella messa in scena e nel mostrare le torture, un fascino per l’uomo macho e copioso sangue sullo schermo, giungiamo allora al finale: la figlia del professore è viva, cresciuta come figlia di quell’uomo che avrebbe dovuto ricevere il cuore trapiantato; dopo essere stata salvata, però, l’uomo capisce che un rapporto con sua figlia sarebbe impossibile e se ne distacca, inviandole un video in cui le spiega la verità prima di morire, del resto, proprio tra le mani della ragazza. A che cosa serve tutto questo sangue e questa complessità, per un’opera che non prende mai una direzione? Perché tanta violenza e poi tale fretta per giustificarne l’essenza, oltre tutto mascherando il film come un noir? Perché generare opere così contraddittorie e incapaci di mantenere salda una posizione, anche se deprecabile?